E se il problema fosse semplicemente lessicale?
Se a mancare di un sistema di lemmi “emozionali” fossimo proprio noi genitori?
Mi spiego. Alcuni ragazzi sono a teatro. Tutti i ragazzi nel teatro si sentono autorizzati a tenere acceso il cellulare di fronte ad uno spettacolo. Alcuni ragazzi spengono il cellulare secondo le indicazioni di rito, del sipario al tempo delle telecomunicazioni instantanee interplanetarie.
Pochi non riescono proprio a spegnerlo.
A cercare di spiegare questo fenomeno ci ha pensato il professor Daniele Zullino dell’Università di Ginevra scoprendo che nelle persone che interagiscono “socialmente” e “ludicamente” con gli schermi interattivi si riscontrano “gli stessi cambiamenti neurobiologici associati alla dipendenza all’alcool e alla cocaina”.
Questo mi ha fatto pensare che da qualche parte nella mia biblioteca deve esserci un libro acquistato da liceale, proprio a Lecce, alla libreria Pensa, dove papà mi accompagnava sempre con gioia all’inizio di ogni anno scolastico. Erano gli anni Ottanta.
Erano gli anni dell’eroina di stato, come la chiama Minoli sul canale RAI STORIA su YouTube.
In quegli anni ebbi l’opportunità di entrare nello staff della radio del villaggio (Radio Blu, 1987) ed avere un programma tutto mio. Stare dietro al microfono, e sapere che qualche centinaio di persone ti stanno ascoltando in diretta, procurava un piacere simile all’ebbrezza dell’alcool. Potendo trasmettere e ricevere sensazioni utilizzando la radio e il telefono, entravo in contatto privato con gli ascoltatori. Disco dopo disco, imparai che le risse erano organizzate in ricordo della virilità maschile da dimostrare alle future mamme che stavano a guardare, in disparte come le galline che assistono alla lotta dei galli – pecking order (Howard Bloom, The Lucifer principle. A scientific expedition into the forces of history, cit., p.11, pp. 195 – 202)-, i ragazzi che vedevo di giorno e scomparivano la sera erano giovani avventori nell’universo dell’eroina (sostanza largamente diffusa in Italia tra gli anni ‘80 e ‘90).
Ragazzi e ragazze in lotta aperta contro il mostro della società avvertito come un attacco al cuore. Potevo procurarmi dell’eroina presso amici del villaggio in cambio di denaro. Non avevo quasi mai denaro in tasca, ma soprattutto non desideravo scomparire la sera, perché avevo la mia trasmissione in radio. Volevo comunque saperne di più e riuscì a comprare il libro Christiane F. Noi ragazzi dello zoo di Berlino. Mentre leggevo le parole scritte da Christiane, una ragazza tossico dipendente, mi suonavano vere, liberatorie, pungenti, cattive e poetiche, e disegnavano il mondo dell’altra faccia del consumismo voluto con la rivoluzione industriale, quei luoghi dell’anima e della città in cui si scompariva la sera per farsi il buco. Le parole scritte da Christiane, a diciassette anni, furono un faro brillante per guardare ad intermittenza alla mia condizione di giovane salentino. Mi rivelarono che, buco dopo buco, «siamo completamente soli in questa valle della follia».
Una situazione che vivevo gratis e senza buchi.
La televisione era ormai in ogni casa del villaggio, libera di agire come l’eroina tra i ragazzi dello zoo di Berlino, e con una scarica di interdipendenza superiore a ogni sostanza chimica introdotta nel corpo. Con la televisione il villaggio era cambiato. Gli adulti seduti sull’uscio di casa chiacchieravano dei personaggi delle prime telenovelas, mentre figli e figlie educati in una scuola pensata e voluta in epoca fascista facevano fatica ad abituarsi allo studio sui libri perché la televisione aveva accelerato i loro processi percettivi e di rappresentazione del mondo. Anche la scuola appariva come un mostro che vuole mangiare il cuore degli studenti, da cui fuggire, ma dove?
Pochi genitori erano a conoscenza delle esperienze di fuga chimica dalla realtà dei figli, perché la maggior parte di loro già si addormentava con la TV accesa: suoni, immagini subcoscienti e frequenze luminose capaci di convertire idee semplici e vere come mamma e papà, oppure ricamatrice, cavamonte, fornaio, parrucchiere, operaio, docente liceale, bidello e spazzino in consumatore di merci, ovviamente non prodotte da te che guardi.
Noi ci immaginiamo di comprarci la cava di calce quando non verrà più sfruttata. E lì sotto ci vogliamo costruire delle case di legno con un enorme giardino pieno di animali e con tutto quello di cui uno ha bisogno per vivere. L’unica strada che c’è per arrivare alla cava la vogliamo chiudere. Non avremmo comunque più alcuna voglia di ritornare su.
(Cristina F., Noi ragazzi dello zoo di Berlino, BUR, 1989)
Il computer è stato la mia cava di calce, il rifugio dell’immaginario e la casa della fantasia, il diario segreto e il costruttore di sogni sociali. Il computer è entrato nella mia vita come un lampo di blu, verso la fine del liceo, quando ero di fronte ad un’altra scelta importante.
A quale università iscrivermi dopo il diploma? e dove? e perché?
Il perché era cosa semplice: volevo fuggire dal Sud quanto prima e il più lontano possibile. Cartina geografica e compasso alla mano la città più lontana da Lecce è Aosta. La seconda Torino. L’Università degli Studi di Torino aveva un Corso di Laurea in Scienze dell’Informazione che prometteva la conoscenza dei programmi che fanno funzionare il cervello elettronico. Ancora grassottello partii per Torino con una valigia nuova (per i vestiti) e una scatola di cartone (per le conserve e l’olio).
L’atmosfera familiare che stavo lasciando suona ancora come i versi di Bodini: «I pomodori secchi / attaccati a uno spago / e le donne dai cuori di cicoria. / I pomodori secchi e i datteri gialli, / e le donne che colgono le olive / fra gli olivastri, con la bocca viola; / tutto è univoco e perso a furia d’esistere».
Alla stazione vennero a salutarmi gli amici, le poche amiche e i parenti.
Fu emozionante, ma la fantasia volava già verso la scienza e l’arte del computer. La scelta di studiare il computer è coincisa con un nuovo fenomeno di intrattenimento per noi ragazzi degli anni Ottanta: i video giochi e i personal computer. Strani giorni in cui guerra, televisione, voglia di evadere, terrorismo, neofascismo, brigate rosse, sete di conoscenza e nuovi linguaggi erano l’allegra compagnia della quotidianità.
Se non hai voce urla, se non hai gambe corri, se non hai speranza inventa!
Nei primi anni di vita della nostra esistenza creiamo il sistema operativo per l’elaborazione della conoscenza del mondo. La cultura occidentale, in cui sono nato, ha generato una rappresentazione della realtà basata sull’alfabeto fonetico, la scrittura da sinistra a destra (dal cuore verso l’esterno) e la sacralità dell’immagine.
L’alfabeto, come semplice sequenza di lettere, è un ponte tra la mnemonica orale e quella scritta: la sequenza delle sue lettere è in genere memorizzata oralmente, e poi usata per ricordare i vari materiali in modo largamente visivo, come avviene negli indici.
(Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, cit., p. 145)
Durante l’infanzia il cervello è un laboratorio elettrochimico in fermento, capace di generare eccitazione e curiosità in maniera tale da nutrire la mente e farla crescere.
Il cervello è suddiviso in aree specializzate in compiti di vario tipo» . L’identificazione dei compiti di ciascuna area è avvenuta per lo più grazie allo studio dei mutamenti comportamentali determinati da vari tipi di lesioni cerebrali. L’esempio più famoso è la scoperta nel 1861, del centro del linguaggio da parte di Paul Broca, chirurgo e antropologo francese: mentre curava i reduci delle campagne militari egli vide infatti che l’abilità verbale è controllata da una minuscola porzione di corteccia localizzata nell’emisfero sinistro del cervello.
(Alwin Scott, Scale verso la mente. Nuove idee sulla coscienza, Bollati Boringhieri, 1995, p. 108).
Imparare a leggere e scrivere significa avere un programma neurale che abita le zone del cervello adiacenti la visione e l’udito e che interferisce con i sistemi più antichi delle emozioni e sensazioni. Un programma simbolico che a partire dalla dimensione fonetica si è esteso insieme alla memoria esterna della scrittura, e la scrittura confonde i limiti tra suono, numero, immagine e parola.
Possiamo dire che l’inizio dell’uomo moderno è nel linguaggio. In principio era il Verbo (Giovanni 1,1). Naturalmente le parole sono il più potente strumento di controllo. Lo studio del linguaggio olografico mostra che la parola è un’immagine. Vediamo e tocchiamo le parole. Usiamo e spostiamo le parole come oggetti. Ci fu una mostra fotografica chiamata la Fine della pittura, ma questo era solo l’inizio.
(William Burroughs, David Carson, The End of Print, 1995, scaricabile gratuitamente dal sito http://www.davidcarsondesign.com/)
All’inizio del Novecento esistevano diverse teorie sul funzionamento del cervello assimilabile a quello di una macchina. Teorie che con l’avvento dei computer, cervelli elettronici, hanno portato diversi scienziati a specchiare la mente nella nuova tecnologia. Ma siamo ancora lontani da una spiegazione logica e razionale che mostri il funzionamento del telaio incantato che elabora continuamente la mente e spirito umano.
Il grande strato superiore della massa, in cui lampeggiavano e si muovevano poche luci, è ormai divenuto uno spazio luccicante di punti luminosi che lampeggiano ritmicamente mentre treni di scintille sfrecciano in ogni direzione. Il cervello si sta risvegliando, e con esso sta tornando la mente: è come se la Via Lattea si fosse lanciata in una danza cosmica. La massa cerebrale si trasforma rapidamente in un telaio incantato in cui milioni di spole lampeggianti tessono un disegno destinato ben presto a dissolversi, uno schema sempre denso di significati ma mai stabile e durevole; un’armonia mutevole di sottoschemi.
(Charles Sherrington citato in Alwin Scott , Scale verso la mente. Nuove idee sulla coscienza, p. 107)
Capire il significato del perché la bellezza provoca emozioni, il sorriso di un bambino trasmette gioia, l’amore può far prendere decisioni inaspettate, il vizio trascina nella passione, è in stretto rapporto con il sistema operativo della cultura e dell’ambiente in cui abita la persona.
La biologia del significato comprende l’intero cervello e il corpo, con la storia personale che l’esperienza incorpora nelle ossa, nei muscoli, nelle ghiandole endocrine e nelle connessioni neurali. Uno stato dotato di significato è una configurazione di attività del sistema nervoso e del corpo che ha un particolare punto focale nello spazio degli stati dell’organismo, non nello spazio fisico del cervello. Quando il significato cambia, il punto focale si sposta, formando una traiettoria che procede a salti, a scatti e a zig zag come una lucciola in una notte d’estate. Gli elementi di ogni stato dinamico sono gli impulsi e le onde cerebrali, le contrazioni dei muscoli, gli angoli delle articolazioni del sistema scheletrico e la secrezione delle cellule del sistema nervoso autonomo e nel sistema neuro endocrino. I significati emergono da tutto l’intero insieme delle connessioni sinaptiche tra i neuroni del neuropilo, dalla sensibilità delle loro zone d’innesco, determinata dai neuro modulatori, e, in misura inferiore, dallo sviluppo, dalla forma e dagli adattamenti del resto del corpo. Le capacità di un atleta, di un ballerino o di un musicista non stanno soltanto nelle sinapsi, ma anche negli arti, nelle dita e nel tronco.
( Walter J. Freeman, Come pensa il cervello, Einaudi, 2000)
Il significato di una parola è un mondo che si accende in tutto il corpo, lo abita, impara e diventa la nostra volontà e i nostri sogni. La parola come immagine significa, come è nella realtà, che il programma del cervello si adatta ad ogni forma di linguaggio di comunicazione.
Il mondo esterno all’individuo viene esplorato dall’intelligenza mediante manipolazioni e operazioni logiche, allo scopo di capire le cose e i fenomeni che accadono attorno a noi. La vista, l’udito, il tatto e tutti i recettori sensoriali si mettono in azione simultaneamente e l’intelligenza cerca di coordinare ogni tipo di sensazione per rendersi conto di ciò che succede. Tutto ciò che viene capito viene poi fissato nella memoria, nei tre settori principali e cioè in quello a breve durata, in quello a lunga durata o in quello con funzioni genetiche. Nel settore di breve durata noi ricordiamo tutto ciò che ci serve al momento e che poi non ci serve più: domani alle otto devo andare alla stazione. Il pensiero viene ricordato fino al momento di salire in treno e poi dimenticato. Nel secondo settore conserviamo tutte quelle conoscenze che ci servono per vivere meglio, per fare, per comunicare, per progettare; tutto ciò che ci serve e che ci servirà sempre. Nel settore genetico si trovano tutti quei dati che saranno trasmessi da individuo a individuo, da genitori a figli. Supplementi alla memoria sono le enciclopedie, gli elenchi, gli archivi, ecc. Aiuti alla memoria sono i grafici, i diagrammi, gli schemi, ecc. La memoria di un bambino ha pochi dati. La memoria di un adulto ne ha molti.
(Bruno Munari, Fantasia. Invenzione, creatività e immaginazione nelle comunicazioni visive, Laterza, 2000, p. 19)
La differenza sostanziale tra il cervello umano e i cervelli elettronici è nella capacità del primo di adattarsi agli errori di sistema, provenienti sia dal caos chimico della trascrizione del codice genetico, di cui ne siamo completamente non coscienti, e sia dalle scelte quotidiane che alimentano di significati il corpo, la mente e lo spirito, generando l’unicità biologica e percettiva di ogni essere umano. Un errore nel programma del sistema operativo di un computer provoca il blocco (crash) dell’intero sistema. Il computer non è capace di adattarsi agli errori, è semplicemente più veloce nel calcolo algebrico e possiede una capacità immensa di memoria delle informazioni dal mondo esterno. Il computer non è capace di pensare se stesso, anche se riesce a costruirne delle copie.
Ologrammi
Con la nascita del linguaggio abbiamo sviluppato attraverso generazioni di sperimentatori, un nuovo programma scritto nel codice del dna capace di astrarre l’uso degli strumenti per costruire altri strumenti e di ricordare come ci siamo riusciti. Nel cervello non ci sono precise aree che possiamo dire specializzate per la memoria, lo stesso vale per quelle relative ai cinque sensi, non c’è un posto preciso nel cervello in cui è registrata la faccia di un nostro amico. Viene ricordata come un reticolo di energie sinaptiche. La memoria utilizza un metodo distribuito, non lineare, di registrazione e accesso alle informazioni assimilabile ai modelli distribuiti usati per realizzare un ologramma. Il concetto di ologramma ha portato ad una spiegazione più comprensibile dei processi della mente.
Nonostante le crescenti prove che i ricordi erano distribuiti, Pribram non sapeva comunque spiegarsi come il cervello potesse compiere una prodezza [la memoria] che appariva magica. Poi, verso la metà degli anni Sessanta, un articolo letto su Scientific American che descriveva la prima costruzione di un ologramma lo colpì come un fulmine. Non solo il concetto olografico era folgorante, ma forniva inoltre una soluzione all’enigma con il quale stava lottando.
(Michael Talbot , Tuttio è uno. L’ ipotesi di una scienza olografica, Corrado Leonardo, 2004, p. 20)
Karl Pribran (1919-2015), neuro chirurgo viennese, aveva osservato uno strano comportamento nei suoi pazienti dopo diverse operazioni di esportazione medica di parti del cervello: nessuno mostrava gravi perdite nell’accesso ai ricordi. Quindi la memoria doveva essere registrata nel cervello non in un’area specifica, ma in qualche modo distribuita nella rete in maniera che l’accesso non fosse gestito da una porzione di cervello ma dall’organizzazione emergente della rete stessa.
Un ologramma è un sistema che utilizza il laser, luce pura, per imprimere su una lastra fotografica speciale (ad alta risoluzione) un’immagine a tre dimensioni. Ovviamente la terza dimensione è illusoria ed esiste solo quando la guardiamo. L’altra caratteristica speciale dell’ologramma, potete provare voi stessi con quello stampato su una vecchia carta di credito, è di non essere divisibile come quando strappiamo una fotografia o una pagina, ovvero ci ritroviamo con due parti dell’intero. Piuttosto quando spezziamo a metà un’immagine olografica otteniamo due nuove immagini identiche, soltanto ad un risoluzione più bassa. La magia, scoperta dal matematico ungherese Dennis Gabor che ricevette il premio Nobel nel 1971, era l’olografia e si basa sul fenomeno fisico dell’interferenza ottica. In pratica ogni punto della lastra fotografica contiene l’informazione di tutta l’immagine. Quello che viene registrato non è l’immagine, ma le configurazioni di interferenza prodotte «quando una singola luce laser viene divisa in due raggi separati. Il primo raggio viene diretto sull’oggetto che deve essere fotografato. Poi si lascia collidere il secondo raggio con la luce riflessa del primo».
Il risultato finale dell’immagine tridimensionale, come memoria olografica dell’oggetto, esiste solo quando noi lo guardiamo, ovvero creiamo una relazione tra la luce impressa e il nostro sistema visivo. Le informazioni registrate sulla lastra fotografica disegnano uno stagno di onde che interferiscono una sull’altra fino a stabilire uno stato di significazione della realtà. Il processo assomiglia alle onde di una pietra gettata nell’acqua di un placido laghetto. Poi se ne lancia un’altra ed un’altra ancora. Le onde che si allontano concentricamente dall’impatto tra la superficie e la pietra si accavallano a quelle della successiva formando una complessa armonia di cerchi che si toccano, si moltiplicano, si sommano e si spostano in ogni direzione. Allo stesso modo sembra che la memoria e la vista elaborano i ricordi, i sogni e le visioni.
L’intricata rete di connessioni neurali è continuamente attraversata da impulsi elettrici simili alle pietre lanciate in uno stagno e le increspature (interferenze) assumono un comportamento indipendente dalle onde che le hanno generate (ad esempio la somma delle due onde che generano l’interferenza non è la somma algebrica che conosciamo, in pratica in questo territorio ondulato 1+1 non fa 2). Un esempio di interferenza nella memoria umana è il ricordo e la sensazione reale di crampi, dolori e pruriti misteriosamente realistici in un arto amputato (illusorio), «ma forse ciò che sperimentano – questi individui – è la memoria olografica dell’arto che è ancora registrata negli schemi di interferenza dei loro cervelli».
Creare l’illusione che le cose siano localizzate dove non lo sono è la caratteristica quintessenziale di un ologramma. Come già detto, se osservate un ologramma, esso sembra estendersi nello spazio, ma se passate la mano attraverso scoprirete che non vi è nulla in quel punto. Malgrado ciò che i vostri sensi vi dicono, nessuno strumento rileverà la presenza di alcuna energia o sostanza anormale dove l’ologramma sembra essere sospeso. Questo avviene perché un ologramma è un’immagine virtuale, un’immagine che sembra essere dove è, e non possiede più estensione nello spazio di quanta ne abbia l’immagine tridimensionale di voi stessi che vedete quando vi guardate allo specchio. Proprio come l’immagine nello specchio si trova nell’argentatura sulla superficie posteriore dello specchio, l’effettiva locazione di un ologramma è sempre nell’emulsione fotografica sulla superficie della pellicola che lo registra.
(Michael Talbot , Tuttio è uno. L’ ipotesi di una scienza olografica, p.31)
Illusioni diverse
La rete di neuroni che si occupa della percezione visiva comprende diverse aree del cervello e può essere considerata come l’emulsione fotografica che registra gli stimoli dal mondo esterno attraverso gli occhi. Il cervello di una persona non vedente dalla nascita adatta la rete neurale della vista al servizio degli altri quattro sensi, della memoria e del linguaggio.
Nel 2005 ho iniziato a seguire con l’Università del Salento il progetto di ricerca Oistros che vede coinvolti artisti e scienziati insieme a persone che hanno diversi tipi di handicap fisico o mentale. Basandosi su attività laboratoriali di carattere senso motorio si stabiliscono dei contatti di comunicazione che non sono razionali o logici. Il contatto diretto con cervelli con un diverso sistema operativo, ovvero incapace di caricare il programma della cultura, richiede la prossimità dell’interfaccia sensoriale della pelle, che ha un linguaggio di comunicazione simile a quello sviluppato nei codici delle danze di popolazioni aborigene e preistoriche.
Chi è affetto dalla sindrome di Down potrebbe ballare tutta la vita e morire di crepacuore, ma il suo sistema operativo della conoscenza del mondo non è in grado di contemplare il consumismo o la macchina. Queste persone sono universi paralleli che possono interferire con la cosiddetta normalità solo quando si è capaci di abbassare le tensioni del linguaggio e si comincia ad adattarsi a nuovi sistemi di trasmissione delle informazioni. Si scopre un mondo fatto di storie, treni di luce, che ricombinano i sistemi di consapevolezza culturale nei confronti di una dimensione più ampia, che come un ologramma, può essere spiegata dal «tutto è uno». Ho imparato a scambiare stati di coscienza altri simili al significato nascosto negli ideogrammi degli haiku giapponesi. Mettersi in relazione empatica con il diverso da sé ristabilisce il collegamento mancante – missing link – con la natura del mondo e dell’essere umano.
Il sistema della percezione visiva non agisce a livello spaziale ma temporale. Come nel rituale del grooming i cervelli dei primati trovano gli stimoli per la soddisfazione del racconto di storie, allo stessa maniera le attività senso motorie legate a gesti significativi, nella relazione con il diverso, attivano una dimensione sociale in cui emerge un ventaglio di personalità assimilabili a quelle tra un broker e un operaio metalmeccanico, o tra un musicista e un programmatore. Stesso corpo ma diverso sistema operativo.
Oggigiorno i primati non umani esprimono i loro legami reciproci attraverso il rituale del grooming: maggiore è la quantità di tempo dedicata alla cerimonia di auto pulizia, più forte risulta essere la relazione. Con l’ampliarsi dei gruppi, ogni individuo, maschio o femmina che sia, dovrà investire più tempo nel grooming, al fin di gestire l’accresciuto numero di relazioni sociali che deve mantenere. Il grooming ha il potere di creare e consolidare i legami sociali, sebbene in che modo ciò avvenga e perché rimanga un fatto poco chiaro. Con ogni probabilità, esso stimola il rilascio nel cervello di sostanze chimiche chiamate endorfine, le quali apportano una sensazione di benessere e piacere.
(Steven Mithen, Il canto degli antenati. Le origini della musica, del linguaggio, della mente e del corpo, cit., pp. 148-156)
Scrive Giuseppe Kanizsa (1975), uno degli psicologi italiani che ha seguito le ricerche sulla Gestalt (teoria delle forme): «una scienza della percezione può avere inizio soltanto nel momento in cui ci si chiede perché e come l’ambiente nel quale viviamo si articola per noi in oggetti distinti uno dall’altro, e perché esso si articola proprio in quegli oggetti, i quali possiedono proprio quelle date caratteristiche di forma, di colore, di grandezza, di odore, di durezza, che sono posti ad una certa distanza da noi, che si muovono a varie velocità o stanno completamente immobili… L’uomo della strada è probabilmente convinto che gli scienziati abbiano già risolto questi problemi – ma quanto al fatto che nelle singole occasioni vengano registrati quegli oggetti, proprio con quelle caratteristiche, egli non riesce proprio a capire perché mai si dovrebbe vedere qualcosa d’altro. Questo atteggiamento può essere definito come realismo ingenuo» (G. Kanizsa, P. Legrenzi, P. Meazzini, I processi cognitivi. Un’introduzione alla psicologia generale, il Mulino, 1975, p. 13).
Mentre leggevo queste righe è passato a trovarmi mio padre. Il suo realismo ingenuo è un atteggiamento naturale, è una persona che si guarda intorno e cerca di scoprire il mondo senza chiedersi il perché e il come delle cose.
Agisce il mondo come un maestro zen.
Ridiamo un sacco quando stiamo insieme, basta uno sguardo, una situazione per abbandonare le redini della ricerca e lasciarmi cullare dal suo sano realismo ingenuo. Gli ho fatto vedere quest’immagine.
Forse farà lo stesso effetto anche a voi appena scoprite che le linee verticali sono parallele. Quando ho mostrato a mio padre l’immagine e poi svelato che le linee sono effettivamente parallele (basta scorrere con un foglio di carta l’immagine) lui ha risposto: E allora? Ho il cervello che funziona bene! e subito dopo cercava di allontanare dallo schermo la freccia del mouse credendo fosse una zanzara. Ci stavamo soffocando dal ridere. Certo, il cervello funziona bene, proprio perché la nostra percezione visiva contempla l’illusione ottica. Le linee ci appaiono non parallele perché il nostro sistema visivo è basato su due occhi e lo spostamento dell’asse di sfondo (parallasse) confonde la percezione del parallelismo tra le rette. Questo fenomeno è conosciuto dai fisici che studiano la rifrazione della luce in un liquido, dai cartografi che calcolano angoli, dai pittori che tracciano codici segreti, dai poeti che inventano rime, dai musicisti che battono i tamburi con ritmo sincopato e dai designer che comunicano attraverso i segnali della grafica.
La comunicazione etica non deve confondere chi guarda, perché è indice di una confusione dell’ideatore del messaggio da trasmettere. Mi spiego. Durante le elezioni presidenziali del 2000 negli Stati Uniti, lo stato della Florida, in cui concorrevano George Bush e Al Gore, adotta una particolare scheda elettorale a farfalla. Il sistema di voto americano si basa sulla punzonatura (ballot vote machine) della scheda nel punto corrispondente il nome del candidato. Se la scheda elettorale invece di avere allineati nome del candidato e punto di punzonatura, presenta un evidente sistema di disallineamento, allora è chiara l’intenzione di illudere il cittadino. Questa procedura non soltanto elude il principio universale dell’allineamento nel design grafico: «gli elementi di un design devono essere allineati ad altri elementi; ciò crea un senso di unità e di coesione che contribuisce a determinare l’estetica e suggerisce stabilità. L’allineamento può costituire anche un efficace strumento di orientamento per l’utente», ma mette in crisi la definizione di democrazia attraverso il controllo percettivo del voto a favore degli scopi personali dell’allora presidente in carica George W. Bush.
(W. Lidwell, K. Holden, J. Butler, Principi Universali del Design, Logos, 2005, pp. 22 – 23)
Il candidato Pat Buchanan della corrente di Bush ha preso molti dei voti che sarebbero dovuti andare ad Gore per via del disallineamento visivo tra indice percettivo (sulla scheda a farfalla appare al secondo posto) e punzonatura della preferenza. La macchina della democrazia nell’epoca della comunicazione di massa è stata portata alla dimensione del controllo percettivo basato sulla costruzione di immagini illusorie ed allo stesso tempo reali quanto il triangolo bianco che vediamo nella Superficie anomala (1955) di Kanitza.
Quando proviamo a descrivere questa figura, probabilmente siamo portati a vederla costituita da un triangolo bianco non trasparente che copre parzialmente tre dischi neri ed un altro triangolo delimitato da un margine nero. Nel disegno il triangolo bianco non esiste, è soltanto un fenomeno ottico, si materializza nella nostra mente olografica anche se la figura è effettivamente composta da tre cerchi neri e tre angoli disposti in un particolare ordine. Quello che ci porta a capire come funzionano i processi cognitivi e perché ci comportiamo in un determinato modo deriva dal fatto che il triangolo bianco non soltanto lo immaginiamo, ma lo vediamo proprio con i nostri occhi. La fiducia cristiana nelle immagini ha definito un sistema di rappresentazione del mondo che necessita di un’architettura gerarchica per esistere, nascondendo dietro la fragilità svelata del senso della visione una profonda frattura tra dominatore e subordinato.
La rivincita contemporanea dei subordinati che hanno accesso alle informazioni online ha la funzione di destrutturare le gerarchie elitarie per ricondurle alla dimensione più naturale d’interferenze nella rete di simili. La sensazione che la democrazia fosse soltanto un modo per controllare la coscienza cristiana era palese sin dai tempi dei romani che, incapaci di mettere in colonna i numeri, erano però attenti a mettere in fila parole e persone con la retorica. Ogni parola è un albero elettrochimico nella nostra mente e ogni parola ha il potere di illudere sia chi la pronuncia sia chi l’ascolta. Così come la poesia ci trasporta in uno spazio sensibile di colori e profumi inesistenti, allo stesso modo la parola che diventa legge può trasportarci in prigioni reali senza colori e puzzolenti. Per sfuggire alle parole occorrono nuove parole. Per prendere coscienza delle illusioni è vitale essere realisticamente ingenui nei confronti di quello che vediamo e drasticamente sinceri con quello che sogniamo. Quando sogniamo di volare, come consigliava Carlos Castaneda (1997), dovremmo avere l’attenzione in sogno di guardarci i palmi delle mani e prendere le redini del sogno. (Carlos Castaneda, Tensegrità. I sette movimenti magici degli sciamani dell’antico Messico, Rizzoli, 1997).
Allora, come Oistros, ritorniamo a prendere in mano i nostri sogni nell’era dell post-verità e dell’hypernormalizzazione.
Il teatro della complessità
La relazione tra quello che costruiamo e il mondo esterno è un processo in cui intervengono casualità e necessità; è una serie di azioni che portano in alcuni casi ad inventare cose che prima non esistevano e che modificano per brevi o lunghi periodi la società in cui appaiono. Questa relazione è comunemente intesa con il termine in lingua anglosassone design.
«Nel Rinascimento gli artisti si dedicavano già al “disegno”. Per Leonardo Da Vinci, il più grande di tutti, questo termine non indicava solo l’arte e il mestiere stesso del disegnare, ma anche la capacità di comunicare graficamente le idee. L’ampia interpretazione di Leonardo del disegno non era molto lontana da ciò che oggi definiamo design: la capacità di concettualizzare un’idea, esprimerla attraverso i materiali e di comprovarla coi fatti. Quando nel sedicesimo secolo il termine disegno entrò a far parte della lingua inglese, non assunse solamente il significato di disegno, ma anche di intenzione. Oggi il termine “design” esprime entrambi i significati: un’utile mescolanza di espressione creativa e di scopo intellettuale. Leonardo l’aveva già capito: nella sua domanda di lavoro a Lodovico Sforza, duca di Milano, elencò le sue doti e i suoi successi, mettendo in primo piano il “disegno” di utili canali rispetto a dipinti e sculture meramente decorativi. Il design è un’arte, ma un’arte che funziona.» (Stefen Bayley, Conran Terence, Design. L’intelligenza visibile, Logos, 2009, p. 13)
Il design è un’arte che funziona, il design è intelligenza visibile e concreta. Il designer digitale, colui che disegna o progetta simulacri con il computer, sviluppa un’intelligenza altra in relazione allo schermo interattivo. Lo schermo sostituisce il mondo esterno, abitato dal corpo, con il mondo virtuale renderizzato in tempo reale nella nostra immaginazione (iperrealtà). Il mondo virtuale sostituisce egregiamente il mondo reale nella soddisfazione biologica della comodità, degli affari, della comunicazione, del racconto e del controllo. Una volta partito Cristoforo Colombo dovette affrontare l’Atlantico e veleggiare verso ovest con cognizione di causa. Ad esempio, fare in modo che il disegno di un ponte diventi realtà necessita di calcoli preliminari e disegni per visualizzare le idee. Quando l’idea si cristallizza in azioni da compiere, allora comincia la fase di costruzione che richiede il dispendio grandi energie fisiche. I calcoli matematici sono possibili grazie ad un sistema simbolico inventato per rispondere alle pressioni di nuovi problemi che emergevano nelle prime comunità sociali. In ogni regione del pianeta negli ultimi tremila anni alcuni uomini hanno voluto costruire edifici enormi, fuori scala umana.
In ognuna di queste regioni per rispondere ai bisogni di magnificenza dichiarati dal dominatore di turno, alcuni uomini educati a manipolare simboli erano capaci di ottenere risposte reali ai nuovi problemi. Dovevano essere molto creativi e precisi gli architetti Maya nel costruire gli imponenti edifici delle città di Tikal o Copàn, con dimensioni e complessità per cui è difficile credere che venissero eretti senza disegni preliminari (Charles Gallenkamp, Maya: The Riddle and Rediscovery of a Lost Civilization, Penguin, 1987, p. 96).
Il design di un oggetto digitale non richiede nessuno sforzo fisico. La fiamma dell’idea si trasforma in azioni che necessitano soltanto del computer. Tutto inizia e finisce nella memoria e nei processori matematici del cervello elettronico. Non c’è differenza tra reale e virtuale. C’è sostituzione. Il computer è il punto di non ritorno nel processo di esternalizzazione delle idee verso il mondo. Nella storia dell’evoluzione del computer, come nella storia che si studia a scuola, ci sono pochissime figure femminili che hanno contribuito al design del cervello elettronico.
Nel corso della mia esperienza con la storia imparata a scuola ricordo le figure di grandi condottieri, scienziati, artisti, santi e navigatori che non erano mai compensate da altrettante grandi figure femminili. Una storia androcentrica appunto. Doveva pur esserci un perché. Per scoprirlo dobbiamo capire meglio la differenza tra maschio e femmina. La versione più convincente l’ho trovata nel gene egoista di Richard Dawkins (1976), docente di zoologia all’Università di Oxford. La vita secondo Dawkins all’inizio non conosceva la riproduzione sessuata. Le prime forme di vita erano talmente semplici che dopo aver mangiato e cresciuto abbastanza erano in grado di dividersi in due. Nel brodo iniziale di energie e particelle dalle forme semplici è emerso inaspettatamente un sistema più complesso ed auto-organizzato. La complessità porta differenziazione e casualità. Lo scambio di informazioni (nutrimento) tra le semplici forme di vita ha generato relazioni che si sono cristallizzate in un sistema operativo a livello più alto. Il processo di auto organizzazione tra forme di vita, in comunicazione reciproca (feedback), si innesca spontaneamente in natura ed è regolato dalle leggi che esplorano il margine del caos.
La prima e più ovvia proprietà di ogni rete è la sua non linearità: la rete si estende in tutte le direzioni. Quindi le relazioni di uno schema a rete sono relazioni non lineari. In particolare, uno stimolo, o messaggio, può viaggiare lungo un percorso ciclico, che può diventare un anello di retroazione. Il concetto di retroazione è intimamente legato allo schema a rete. Poiché le reti comunicazione possono generare anelli di retroazione, esse possono acquisire capacità di regolare se stesse.
(Fritjof Capra, La rete della vita, BUR, 2001, p. 97)
La differenziazione dei sessi è qualcosa di antico come la vita stessa, è scritta nel programma genetico dell’adattamento all’ambiente esterno ed è costellata da fenomeni spontanei che solo il caos e i fenomeni di auto-organizzazione riescono a chiarire. L’unica differenza tra maschio e femmina comune agli organismi viventi del regno animale e vegetale è che le cellule sessuali (gameti) dei maschi sono molto più piccole e più numerose dei gameti femminili. (Richard Dawkins, Il gene egoista, Mondadori, 1994, p. 191)
Perché non ci avevo pensato prima, viene da dire.
Ma le implicazioni di questa differenziazione sessuale sembrano spiegare perché non trovavo femmine nella storia insegnata nella scuola primaria. Molto probabilmente la risposta è che le femmine nel corso della storia umana erano occupate a nutrire i maschi, grandi e piccoli, in cambio di profondo piacere e intima soddisfazione.
Quando due isogameti si fondono, entrambi contribuiscono con numeri uguali di geni al nuovo individuo e contribuiscono anche con quantità eguali di cibo. Anche spermatozoi e cellule uovo contribuiscono con numeri uguali di geni, ma le uova contribuiscono molto di più in termini di riserve di cibo: in effetti, gli spermatozoi non contribuiscono per nulla e sono semplicemente deputati al trasporto dei propri geni il più velocemente possibile a una cellula uovo. Al momento del concepimento, quindi, il padre ha investito meno della giusta parte (cioè il 50 per cento) di risorse nella progenie. Poiché gli spermatozoi sono così piccoli, un maschio si può permettere di farne molti milioni al giorno. Ciò significa che è potenzialmente in grado di avere un gran numero di figli in brevissimo periodo di tempo, usando femmine diverse. Ciò è possibile soltanto perché ciascun nuovo embrione riceve in ciascun caso il cibo adeguato dalla madre, il che pone però un limite al numero di figli che una femmina può avere, mentre il numero di figli che può avere un maschio è virtualmente illimitato. Lo sfruttamento delle donne comincia qui.
(Richard Dawkins, Il gene egoista, cit., p. 192)
Il paradiso perduto si trova nella zona dove pensiero e azione operano con un linguaggio diverso da quello alfabetico. In queste regioni della mente si animano le immagini. Tranne in casi di malformazioni dovute alla casualità che interviene nel complesso atto del concepimento (momento in cui si fonde il patrimonio genetico del padre con quello della madre per generare un nuovo essere umano), ognuno di noi ha un sistema operativo neurale in grado di coltivare energie creative e cognitive, che forniscono il nutrimento per la condizione olistica della realtà.
Ogni essere umano è potenzialmente in grado di modificare il corso degli eventi grazie alla capacità di invenzione e scoperta, ma solo in alcuni casi l’oggetto pensato nel disegno originale si diffonde poi nella realtà. Le invenzioni tecnologiche dopo il computer elettronico emergono dall’idea di miglioramento della qualità delle esperienze e dei risultati nel rapporto uomo macchina e dal concetto di integrazione dell’intelligenza che vede impegnati diversi designer digitali nella costruzione di sistemi elettronici capaci di avere un sistema operativo aperto all’auto organizzazione di forme di intelligenza. L’iperrealtà delle idee digitali genera chimiche che pretendono la tua creatività in cambio di strumenti che aprono la mente verso un sistema di infinite possibilità e combinazioni simboliche che interferiscono quotidianamente sulla personale percezione della realtà, trasformandola. (Jean Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, 1976, p. 40).
Il rapporto con il qui ed ora nella cultura consumistica è isterico. Il mondo del design, ovvero l’arte che funziona, deve chiedersi se le invenzioni prodotte e distribuite negli ultimi anni funzionano veramente nel rapporto istintivo con il miglioramento delle condizioni di vita. Sapremo trovare la valle dell’orgasmo nel rapporto con il pianeta Terra, oppure continueremo oltre il punto di non ritorno in cui la nostra specie si mette a serio rischio di estinzione? Il mondo del design, nella iperrealtà del contemporaneo diventa per Bruce Mau (2004) il design del mondo.
Fino a poco tempo fa designer e artisti erano figure eclettiche, esperte in varie discipline, che si dedicavano allo studio dell’arte e della scienza allo scopo di comprendere i fondamenti della natura per applicarli alle proprie conoscenze e risolvere i problemi dell’epoca in cui vivevano. Successivamente, la quantità e complessità delle informazioni acquisite li ha indotti a una maggiore specializzazione, e la vastità delle informazioni è cresciuta a discapito dell’approfondimento, tendenza che è tuttora in atto. A tale maggiore specializzazione ha corrisposto una minore consapevolezza delle scoperte che sempre più velocemente modificano la nostra realtà quotidiana.
(W. Lidwell, K. Holden, J. Butler, Principi Universali del Design, cit., p. 10)
Piuttosto che chiedersi in che maniera le scoperte modificano la realtà quotidiana, possiamo chiederci quando e come certe invenzioni e scoperte riescono ad entrare nel sistema sociale. Innanzitutto l’invenzione è l’abilità di immaginare qualcosa che prima non c’era e che subito dopo risolve un certo problema pratico. L’inventore non si preoccupa del lato estetico della sua invenzione, ciò che importa per lui è che la cosa funzioni veramente e serva a qualcosa (Bruno Munari, Fantasia. Invenzione, creatività e immaginazione nelle comunicazioni visive, cit., p. 21).
Scoprire qualcosa significa invece entrare in contatto con oggetti o fenomeni che già esistevano, ma di cui non si aveva conosceva. Cristoforo Colombo non ha inventato l’America, ma piuttosto l’ha scoperta riuscendo ad andare oltre il punto di non ritorno. Le invenzioni sono il frutto del lavoro di un essere umano immerso in un problema specifico, ma che spesso, lateralmente, lo conduce ad una intuizione sulla risoluzione di un problema altro, rispetto a cosa stava pensando fino a quel momento. La fiamma della ricerca della soluzione ad un problema, nella storia della scienza, mostra come si cristallizza frequentemente nell’intuizione per qualcosa di altro.
La storia dell’arte può significare il racconto dell’invenzione, del progresso e dei destini ulteriori di un’arte o di un mestiere; ma molto più vale la tecnologia, che spiega in maniera completa, ordinata e chiara tutti i lavori, il loro avvenire e le loro cause.
(Horst Bredekamp, Nostalgia dell’antico e fascino della macchina. Il futuro della storia dell’arte, il Saggiatore, 1996, p. 98)
L’evoluzione delle invenzioni e degli strumenti è simile al viaggio che compie l’embrione dopo il concepimento, prima di venire alla luce, si costruiscono le basi per un progetto a lungo termine, capace di crescere e adattarsi al mondo esterno. Ogni macchina, generata dal disegno e dal calcolo, che si è dimostrata efficiente nell’aiutare l’uomo in specifiche attività, rappresenta un plug-in al sistema operativo neurale. Il computer è il simulacro della vita e dell’intelligenza. La macchina pensante di Alan Turing (1950) ha modificato nell’arco di una generazione i sistemi fondanti della cultura, della partecipazione e dell’organizzazione sociale. La successiva rete di macchine pensanti sta mostrando i fenomeni di auto organizzazione, osservabili in natura a livello cellulare, attraverso l’emergenza di community aggregate intorno ad idee particolari (anche controcorrente), il crescere di servizi digitali orientati a far crescere le ore a contatto con gli schermi interattivi, la tendenza alla nascita di nuovi linguaggi numerici a base informatica ed il contrappasso dell’estinzione di lingue umane parlate da piccoli gruppi di persone sparsi per il pianeta.
«Gli specialisti riconoscono che un linguaggio può sopravvivere quando almeno 100,000 persone lo parlano. La metà delle circa 6,000 lingue esistenti nel mondo, oggi, è parlata da meno di 10,000 persone, ed un quarto da meno di 1,000. Solo poche lingue sono parlate da milioni di persone. La morte di una lingua non è un fenomeno nuovo. Da quando le lingue si sono diversificate, almeno 30,000 (qualcuno dice mezzo milione) di queste sono nate ed estinte, spesso senza lasciare alcuna traccia. I linguaggi hanno una vita relativamente breve. Solo qualcuno, come il basco, l’egiziano, il cinese, il greco, l’ebraico, il latino, il persiano, il sanscrito e il tamil, hanno resistito più di 2,000 anni». (Ranka Bjeljac-Babic , 6.000 languages: an embattled heritage)
Il linguaggio umano, chiarisce Steven Pinker (2007), «non costruisce o modella l’essere umano, è piuttosto una finestra sulla natura dell’uomo» che lo parla, spinto ad inventarlo nella rete della mente sociale dentro la rete della vita. Ogni parola è un reticolo di connessioni neurali, ogni azione un processo che attiva muscoli o altre parole. L’intelligenza secondo Pinker è un repertorio di concetti (oggetti, spazio, tempo, causa, intenzione) molto utili alla specie umana intensivamente orientata alla socialità ed alla conoscenza. L’intelligenza è vista come un processo di astrazione metaforica attivato dalle strutture concettuali depurate dai loro contenuti, ed applicate a nuovi ed astratti domini. Il sistema operativo dell’intelligenza quando ha cominciato a non essere utilizzato solo per confrontarsi ed organizzarsi in relazione all’ambiente naturale esterno (ovvero i concetti necessari alla sopravvivenza di oggetto, spazio, tempo, causa, intenzione) ha acceso processi di pensiero astratti come la matematica e la geometria.
Psichedelia digitale
I greci hanno imparato a gestire l’imprevedibile con i miti, utilizzando l’alfabeto come strumento di comunicazione tra le menti pensanti, i monaci tibetani hanno capito che l’imprevedibile è la Strada – il Tao – in cui l’essere umano si trova. A differenza di molte filosofie occidentali che si fanno strumento di comprensione attraverso l’analisi matematica del mondo, il Taoismo si esprime spesso con brevi frasi suggestive – haiku. La via seguita dal filosofo taoista non punta alla mente delle persone, bensì alle persone nella loro interezza fatta di emozioni, sensazioni o semplici percezioni di una realtà che non può essere compresa solo con la mente, ma anzi spesso è proprio quest’ultima, con i suoi pregiudizi, a viziare la visione di ciò che i nostri occhi potrebbero ben vedere. Le menti d’occidente perturbate dal consumismo hanno perso di vista l’essenza umana. Le tecnologie liberano e allo stesso tempo assoggettano la mente pensante alla macchina che connette, chiedendo alle persone un tempo sempre crescente di vita nella rete. Individui immersi in una seconda vita, dalla mattina alla notte di fronte lo schermo, partecipano allo spettacolo della rete scambiando le dinamiche energie mentali con l’immobilità muscolare. Il corpo dietro lo schermo produce e consuma storie digitali che vivono nell’iperrealtà simulata al computer. La mappa precede il territorio, nel senso di essere non più rappresentazione della realtà ma la realtà stessa entro cui la mente pensa. Pensare la rete produce psichedelia digitale, una forma di eccitazione sensoriale alimentata da cicli di immersione digitale che ci chiedono di imparare e conoscere l’ambiente prima di interagire con lo schermo attraverso mouse e tastiera. Si procede in questo nuovo territorio come in natura, per tentativi ed errori. La materia prima delle reti non sono le procedure ma le persone. Imparare ad utilizzare la rete e non farsi utilizzare da essa è la sfida educativa che le nuove generazioni affrontano adesso. La nuova alienazione nello spazio del virtuale preme sulla popolazione umana che entro il 2050 dovrebbe superare i nove miliardi di persone sparse sul globo. La rete è composta da nodi e connessioni, non ha limiti geografici. L’esplosione degli accessi ad internet, dal 1995 al 2006 (e il processo non accenna a fermarsi), ha portato ad una mappa di internet dove i nodi aggregatori non sono né le idee, né il dominio, ma ogni singolo essere umano connesso ad internet. La persona dell’anno 2006, per la nota rivista inglese Time è stata YOU (proprio tu che mi stai leggendo e ti guardi allo specchio digitale!).
Lev Grossman, autore dell’articolo di copertina, giustifica la scelta portando l’attenzione sul fenomeno dei blog e dei social network, strumenti utilizzabili senza nessuna conoscenza del motore informatico che li fa funzionare. (http://content.time.com/time/magazine/article/0,9171,1570810,00.html)
Analogamente, i segni possono essere trasmessi dal superio, ossia il sistema normativo-prescrittivo dell’emittente, a un ricevente che può interpretarli al livello percettivo-cognitivo o dell’io – o al livello inconscio mediante le strutture dell’io o del superio. Può nascere anche un conflitto nella personalità del ricevente sull’interpretazione del segno non verbale a entrambi i livelli e all’interno delle strutture e dei loro rapporti. Ad esempio, il sorriso di una donna potrebbe essere interpretato da un ricevente maschio, allo stesso tempo, come gentilezza, invito, tentazione, con il conseguente problema di quale fosse la reale intenzione e di quale segnale emettere in risposta. Come appare assurdo, addirittura bizzarro, il gergo tipico dell’«ingegneria della comunicazione»
[…]
Se prendiamo in cosiderazione il modello freudiano secondo il quale la personalità umana consiste di numerose strutture differenziate ma collegate (per esempio: id, superio, io), che comportano livelli di consapevolezza inconsci, preconsci e consci di consapevolezza, possiamo congetturare che i segni non verbali possono essere finalistacamente diretti da desideri e aspirazioni inconsci dell’id dell’imminente e interpretati consciamente o inconsciamente dal ricevente in base a un criterio interno che regola i suoi fini personali.
(Victor Turner, Antropologia della performance, il Mulino, 1986, p. 162)
Il web prima dei blog era costruito e consumato dall’Io, Super Io ed Es di qualche migliaio di esperti sparsi per il mondo. L’Io del web viveva quotidianamente di nuovo codice e programmi. «In un codice, una parola o frase è rimpiazzata da una parola, numero o simbolo». (Simon Singh, The code book, The science of secrecy from ancient Egypt to quantum cryptography, Anchor Book, 1999, p. xv).
Il Super Io premeva con i sentimenti di libertà e moralità impliciti nella vita e natura dei codici. Il software libero e le community open source incarnano il desiderio di un mondo migliore con il contributo di tutti. L’Es della rete ha trovato sfogo nei MUD, nelle chat e in tutti quei sistemi di comunicazione tutti a tutti tipici della non linearità interna delle reti prima dei blog. Nella rete globale e interconnessa le idee (memi) viaggiano alla velocità della luce, la scrittura e la lettura di segni e simboli ha sostituito il tempo dedicato alla comunicazione faccia a faccia, la scoperta dell’incertezza alla base della vita ha portato il XX secolo in un’epoca di passioni tristi per le nuove generazioni di nativi digitali e in un’epoca di crisi climatica per il piccolo pianeta Terra.
La stragrande maggioranza degli utenti di internet non conosce il computer, la rete e i sistemi di intelligenza artificiale che utilizza quotidianamente stando seduta di fronte allo schermo interattivo dei programmi e delle applicazioni che girano su diversi sistemi operativi.
Siamo già stati abituati a non conoscere gli strumenti che utilizziamo. Va bene per il forno a microonde che deve alleggerirmi della fatica di accendere il gas e dedicare un pezzo del mio tempo per cucinare il cibo. Va bene per l’aereo che mi rende un uccello, libero di pensare il mondo soltanto se ho moneta. Va bene anche il libro che mi rende partecipe dei pensieri scritti da altri. Pensieri che modificano il mio pensare diventando l’altro da me. Modificando il mio agire con i pensieri degli altri. Ogni parola interviene sulla nostra esistenza, ne modifica la coscienza e costruisce l’essere. I pensieri ci agiscono quando l’azione nel mondo è soffocata dal pensiero del mondo. Cucinare il cibo produce un’intelligenza diversa da quella che emerge dall’azione di accendere il forno a microonde o soltanto leggere una ricetta. L’azione del conoscere l’arte del cibo è amputata a favore del tempo che ha dedicato l’industria a farci risparmiare tempo in cucina.
Come si comporta la società della rete?
Possiamo pensare ad una cultura che si frammenta a causa della velocità in cui vengono trasmesse le informazioni. Tutto è informazione, perfino la stessa conoscenza è informazione. Quindi è possibile trasmetterla, attraverso diversi canali. Ma la conoscenza è prima di tutto esperienza, influenza dell’ambiente circostante, e propensioni istintive dell’individuo. L’ambiente sociale essendo stratificato determina quelli che sono i canali interni di trasmissione dell’informazione, ma la presenza di un rumore esterno può determinare stati destabilizzati in cui è possibile accettare flussi di informazione provenienti da un livello diverso. Le società umane si comportano come un canale di comunicazione tra persone disturbato dal rumore della guerra. Piuttosto che l’inizio della nuova era digitale, dopo la seconda guerra mondiale è più evidente la percezione della fine dell’innocenza.
La fine dell’innocenza disegnata con la scoperta dell’atomo ha generato una serie di fenomeni culturali che vengono di volta in volta caratterizzati come nuovi. L’idea del nuovo risiede nell’idea di oltre. Attraverso la tecnologia ogni scoperta assume una forma nuova, che si insinua nella società. Se la scienza sta scoprendo sempre di più la necessità di costruire delle teorie che spieghino i fenomeni della natura e oltre sulla base di intuizioni e percorsi informali. Allora l’arte, che è stata sempre il rifugio della creazione per eccellenza, dissolve le sue forme canoniche e sposta il proprio spirito in ambiti della mente che esplorano la vita, in ogni sua forma.
L’elemento che modifica la società umana in maniera radicale è il computer con la sua forza nell’essere al tempo stesso strumento e modello, esperimento ed evoluzione. Il computer nasce dalla necessità di estendere le facoltà di calcolo dell’uomo. In un momento in cui la scienza tocca gli estremi della vita non basta più la mente aiutata dagli strumenti meccanici a spiegare i fenomeni della natura che si presentano davanti agli occhi. I limiti della conoscenza umana sono stati allargati in un momento in cui l’infinito del cielo e dell’atomo insieme ai segreti svelati della mente umana cominciavano a diventare modelli di riferimento reciproci.
Gli strumenti tecnologici appaiono vuoti.
Sono il pennello lasciato sullo sgabello.
Hanno però una memoria, una nuova forma di memoria, indicizzata, innaturale per l’uomo, asincrona. Siamo in nuova epoca iniziata nell’Ottocento e che sta completando la sua metamorfosi soltanto adesso. Ci siamo staccati dalla natura, abbiamo imparato a conoscere l’uomo nel suo interno, sin dentro la sua psiche. Siamo in grado di pensare il cervello. E adesso si cerca di andare oltre la mente e i sistemi che regolano la vita. Varcare le frontiere digitali per far abitare il proprio cervello di sistemi e meccanismi che permettono a chiunque di utilizzare il computer, vedere nel calcolo matematico la bellezza delle piante, ripensare a se stessi come parte ricombinante di un organismo sociale che vibra sotto i colpi della psichedelia culturale. L’arte è il complesso medium della vita. Ma attenzione poiché l’uomo al tempo del cervello elettronico paga il dazio della perdita della memoria. Il nostro tempo e il nostro spazio sono sconvolti, piegati e trasformati dall’accelerazione elettronica.
Il sogno di Tim Berner Lee era di scrivere un programma per computer che permettesse ai ricercatori del Cern di migliorare la comunicazione e l’elaborazione della conoscenza tra di loro. Migliorare il rapporto interpersonale all’interno del virtuale significa costruire strumenti a schermo interattivo, dove codici e informazioni possono essere accessibili e modificabili da tutte le persone autorizzate. Erano gli inizi degli anni novanta e sembra siano passati due secoli dalle prima pagine HTML modificabili con un semplice programma di editing testuale.
I cambiamenti di paradigma della rivoluzione informatica avvengono sempre più di frequente. Le rivoluzioni scientifiche come le ha chiamate Thomas Khun (1999) sono fenomeni che si infiltrano nel tessuto sociale e ne modificano le regole e i comportamenti.
«Ogni rivoluzione scientifica ha reso necessario l’abbandono da parte della comunità di una teoria scientifica un tempo onorata, in favore di un’altra incompatibile con essa; ha prodotto, di conseguenza , un cambiamento dei problemi da proporre all’indagine scientifica e dei criteri secondo i quali la professione stabiliva che cosa si sarebbe dovuto considerare come un problema ammissibile o come una soluzione legittima di esso. Ogni rivoluzione scientifica ha trasformato la immaginazione scientifica in un modo che dovremo descrivere in ultima istanza come una trasformazione del mondo entro il quale veniva fatto il lavoro scientifico». (Thomas Khun, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 1999, pp. 24-25)
Nessuno è immune ai media, dichiarava Marshall McLuhan (1969), prevedendo l’emergere di un villaggio globale costruito sulla capacità di interconnessione elettrica delle reti informatiche. Un’onda rivoluzionaria che in mezzo secolo ha trasformato completamente la percezione del tempo e dello spazio in buona parte della popolazione occidentale. Il web è uno spazio digitale in cui non ci sono distinzioni né di credo né di razza e dove le informazioni possono viaggiare liberamente in un nuovo campo tecno-magnetico.
Lo schermo del computer, introducendo modalità interattive a doppio senso, ha aggiunto la velocità. L’effetto degli ipermedia integrati è l’immersione totale. Stiamo per ritrovarci coinvolti in una nuova cultura della profondità, che sta prendendo forma ora, nel corso degli anni ’90. Ogni volta che un dato medium viene posto in risalto, l’intera cultura passa da un campo tecno-magnetico all’altro.
(Derrick De Kerckove, Brainframes. Mente, Tecnologia, Mercato. Come le tecnologie della comunicazione trasformano la mente umana, Baskerville, 1993, p. 108 – 109)
Siamo all’alba di una nuova epoca psichedelica in cui il mondo può essere costruito e ricostruito a piacimento manipolando i bit e non gli atomi?
Nella società della rete è arduo lasciar fluire le energie vitali che il nostro corpo ha sempre sentito e che in molti casi l’essere umano è riuscito ad armonizzare con la Natura. La conoscenza del mondo, nella prospettiva orientale, si fonda sulla consapevolezza dell’essere umano come risultato di un’evoluzione naturale che è scritta nel corpo. La ricerca della felicità è indirizzata verso lo spirito e l’armonia con la Natura. Nel mondo occidentale si assiste invece alla lotta dell’individuo con un presente enorme, difficile da sopportare fisicamente e mentalmente. Il presente enorme è il risultato della percezione del globale, della dislocazione delle relazioni e dell’assenza di prospettive positive. Iniziamo a vivere una realtà che muta e trasforma l’umanità a ritmi sempre più veloci, una nuova realtà mutante che definisco utilizzando il termine inglese: morphed reality.
Com’è l’uomo della morphed reality?
La percezione del globale è alimentata dalla comunicazione digitale che senza soluzione di continuità tra reale e virtuale, colpisce i nostri sensi ininterrottamente giorno e notte. Ogni livello dell’esistenza è permeato da elementi del mondo esterno che comunicano con la nostra sub-coscienza. La pelle è coperta da vestiti che sono i segni sensibili del proprio esistere. I vestiti e la moda hanno inaugurato il meltin’pot della produzione industriale che ha schiacciato la conoscenza locale e la cura per le materie prime nella creazione di costumi. Soltanto le alte sfere della moda conservano ed utilizzano le tecniche della tradizione e i risultati, ovvero i costumi, hanno prezzi enormi. La casa, luogo della famiglia, è abitata dalla televisione che funge da nuovo focolare domestico rumoroso ed invadente.
La TV è un medium che respinge le personalità marcate e preferisce presentare procedimenti di lavorazione piuttosto che prodotti perfettamente finiti.
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 329
La televisione è come un estraneo che entra in casa all’ora di cena, si siede a tavola e condisce i tuoi piatti di tutte le tragedie del mondo, e spesso continua a parlare anche quando dormi. Esiste indipendentemente alla nostra stessa esistenza. La televisione non smette mai di comunicare attraverso la scatola sfavillante.
Le relazioni con gli altri esseri umani sono sempre scaturite da incontri reali, faccia a faccia. Il fattore corpo è fondamentale nella dimensione della reciproca conoscenza. Con internet e le nuove reti sociali assistiamo alla nascita di relazioni virtuali. La nostra mente alleggerita dal peso del corpo ha iniziato a stabilire e mantenere un numero enorme di relazioni dislocate se paragonato alle relazioni nella vita reale (che si contano sulle dita di una mano). L’enormità del presente produce continuamente segni e significati che tentano di spiegare la meravigliosa armonia della natura digitale. La scienza, e gli scienziati, è spinta ad auto-svelarsi intelligente attraverso la freddezza del calcolo. Pensare cosa può essere calcolato è intelligenza? oppure è una deviazione del pensiero indotta dall’alfabeto fonetico? L’arte è imbrigliata nella comunicazione di nuove necessità e bisogni da indurre in chi vive nel mondo occidentale controllato dai mass media e orientato al consumo (J. E. Lips, L’origine delle cose, Sansoni, 1949).
Necessità e bisogni di carattere commerciale – nella stragrande maggioranza dei casi – vengono iniettati attraverso la pelle con i vestiti, la casa, con la televisione e le relazioni con internet. In questo presente enorme le regole della comprensione e dello sguardo sul mondo sono cambiate così radicalmente che non ricordiamo più com’era la realtà pre elettrica. La memoria è stata consegnata ai data base. La bestia computer è fuori dalla mente dell’uomo e si mostra in tutta la sua bellezza.
La rivoluzione informatica è stata soprattutto «la rivoluzione del modo in cui noi esprimiamo i nostri pensieri», piuttosto che di cosa pensiamo. I problemi enormi che si pone la scienza diventano modelli della società. (H. Abelson and G. Sussman, The Structure and Interpretation of Computer Programs, MIT Press, 1996, p. 13).
La scoperta della rotazione della Terra intorno al Sole ha portato ad un ridimensionamento della percezione dell’essere umano che però ha lasciato spazio alla guida di alcuni illuminati. La gravità di Newton ha schiacciato l’Europa in regioni i cui regnanti guerreggiavano tra feste e sangue. La relatività di Albert Einstein ha accompagnato il mondo nelle due guerre mondiali. La fisica quantistica e la genetica contemporanea cercano di spiegare il funzionamento alla base della vita ma ha portato l’onda di incertezza sui cui si costruisce ogni giorno il villaggio globale elettrificato e lo sguardo emozionale sulla realtà che ci circonda. Ma cos’è la realtà?
La realtà è un misto di fenomeni che accadono intorno a noi e agenti – memi – che abitano la nostra mente. L’estensione tecnologica dei sistemi del cervello umano produce la morphed reality. La caratteristica principale dei sistemi complessi ed adattivi, come è considerato il nostro cervello, è il risultato di un’evoluzione secondo regole che contemplano l’incertezza. Se un agente esterno – un virus – si imbatte in una pacifica colonia di batteri in cui la vita scorre ordinariamente, probabilmente esso andrà a disturbare e sconvolgere il quieto vivere della colonia. Alcune volte succede che è necessario accogliere l’agente esterno e quindi estendere la loro vita verso la nuova entità, oppure intraprendere una battaglia verso chi tenta di disturbare la stabilità del sistema e se viene vinta conquistare un nuovo gradino nella curva dell’evoluzione.
Poiché l’evoluzione è un cespuglio che si ramifica copiosamente, l’emergere degli esseri umani dalle scimmie antropomorfe significa semplicemente che all’interno del cespuglio delle scimmie si separò un ramo, producendo infine un ramoscelllo chiamato Homo sapiens, mentre altri rami dello stesso cespuglio si evolsero lungo le loro vie dicotomizzanti fornendo agli altri discendenti che condividono gli antenati più recenti con noi: ossia i gibboni, gli oranghi, gli scimpanzé e i gorilla, chiamati collettivamente scimmie antropomorfe, antropomorfi o pongidi.
(Stefen Jay Gould, Otto piccoli porcellini. Riflessioni di storia naturale, il Saggiatore, 2003, p. 325)
Così come il nostro cervello ha superato diverse tappe evolutive, così anche la realtà fisica che ci circonda è il risultato di un processo complesso e adattivo che coinvolge la vita dell’intero pianeta, fino alle più remote distanze dell’universo. La mente e la coscienza dell’uomo sono parte attiva dell’intero sistema Natura. Dai primi segni della ragione scaturiti dall’estensione delle facoltà del corpo attraverso la costruzione di utensili, fino ai quanti, le galassie e oltre, l’evoluzione della mente e della coscienza umana è stata un agente mutante della realtà.
La morphed reality è un sistema continuamente in movimento. L’uomo entra dall’esterno, come un virus, nella tranquilla colonia della Natura armato di nuovi e potenti utensili della mente. La vecchia capacità di astrarre dalla realtà si è evoluta in una conoscenza fluida che porta l’uomo oltre il sensibile. L’uomo insieme alla tecnologia si è spostato su livelli paralleli della percezione e della conoscenza, luoghi in cui la capacità di astrazione si intreccia con la scoperta di fenomeni della natura celati ai sensi dell’uomo pre elettrico. La morphed reality è la dimensione post-umana. Fino a quando la coscienza dell’uomo era fondata sull’esperienza diretta dei fenomeni della natura, la mente produceva delle rappresentazioni interne del sensibile. La morphed reality genera un sistema complesso in cui le coscienze umane sono frammenti esterni ad un universo parallelo che si palesa alla luce dei media e delle tecnologie. L’amore resisterà all’evoluzione degli strumenti tecnologici – macchine – fino a quando l’uomo non comincerà a diventare esso stesso strumento, andando a chiudere il processo di alleggerimento del corpo a favore dei pensieri della mente.
Per colmare il vuoto dell’esistenza metropolitana milioni di persone connesse alla rete hanno aperto i flussi di relazione con la realtà sulla grande rete collettiva e globale attraverso foto, video, parole, riflessioni, vita privata e vita pubblica. Si passa il tempo a rispondere a tutti con qualcosa, seguire il flusso dei propri interessi intercettato sui canali della vita digitale.
Grazie a telefoni, cercapersone e telefoni cellulari, il lavoro filtra nel nostro tempo privato, obbligandoci a superficiali e impersonali comunicazioni durante le ore che dovremmo riservare a noi stessi. Le e-mail raggiungono i nostri computer, che siano o no portatili; persino i nostri orologi da polso sono dotati di suonerie collegate a microagendine elettroniche. A casa, per la strada o al golf non possiamo fuggire dal bombardamento elettronico.
(Clifford Stoll, Confessioni di un eretico high-tech. Perché i computer nelle scuole non funzionano, cit., p. 167)
Un modo per non pensare, ovvero pensare il non pensiero codificato nell’interfaccia amichevole capace di trattenere il mio corpo e allargare il mio spazio di relazione. Un esercizio zen che la mente chiede per soddisfare il desiderio infantile di curiosità, scoperta e sogno. Le persone che incontri nei viaggi online, se non sono ancora nella tua rete, basta un click per farle entrare nel flusso, quelle che hanno già una vita digitale il solo nominarle – taggarle – diventa codice relazionale per i motori di ricerca in grado di scandagliare in pochi secondi la sconfinata memoria digitale dei data base registrati sugli hard disk dei milioni di computer collegati ad internet. Non c’è più confine tra pubblico e privato, tra vita e lavoro, tra vita reale e vita digitale. Anzi, la vita digitale amplifica la percezione della relazione, che da stabile diventa dinamica. Si dice che siamo tra amici. La relazione digitale è equidistante, non permette gerarchie empatiche. Siamo tutti lontani al massimo tre clic. Entrando a far parte di un gruppo sociale digitale, la dimensione stessa di amicizia è trasformata dalle proprietà della rete. L’amicizia è istantanea, sempre connessa e selezionabile liberamente. Oggi sei un mio amico, domani non solo non lo sei più, ma ti cancello dalla mia memoria.
L’idea di profilo digitale – avatar -, non è più statica.
Non è legata ad una definizione curriculare, ma è basata su quello che stai facendo in questo momento. Pubblicarsi continuamente definisce il profilo, e più alta è la sua posizione sui motori di ricerca e più sembra di stare bene e provare piacere nel mondo reale dello schermo sempre più piatto. Viviamo, spesso senza essere coscienti una vera e propria psichedelia collettiva. Il nostro cervello stimolato dallo schermo interattivo costruisce quotidianamente il viaggio endorfinico degli stimoli sociali digitali. Più tempo dedichiamo al nostro profilo sullo schermo, più crediamo di essere importanti nella comunità. Il tempo dedicato al profilo digitale è spesso senza ricompensa, sfugge ed opacizza le mura del luogo vero dove vive la persona fisica, con il corpo inascoltato e desideroso di legami non digitali.
I primati non umani esprimono i loro legami reciproci attraverso il rituale del grooming: maggiore è la quantità di tempo dedicata alla cerimonia di mutua pulizia, più forte risulta essere la relazione. Con l’ampliarsi dei gruppi, ogni individuo, maschio o femmina che sia, dovrà investire più tempo nel grooming al fine di gestire l’accresciuto numero di relazioni sociali che deve mantenere. Il grooming ha il potere di creare e consolidare i legami sociali, con ogni probabilità, esso stimola il rilascio nel cervello di sostante chimiche chiamate endorfine, le quali apportano una sensazione di benessere e piacere.
L’agenda è il grooming digitale degli esseri umani contemporanei, ci sono appuntamenti importanti, meno importanti, di routine, straordinari, insomma sono operazioni taggabili e istantaneamente condivisibili online. Gli eventi della vita lavorativa, quindi se resi pubblici sulla rete hanno una buona probabilità di cavalcare una delle creste del momento. Infatti il lavoro digitale è spesso condito di lavoro per il mantenimento del profilo online che ci ricompensa con scariche di bit in forma di endorfine. Nel world wide web tutto è adesso. Il presente fluisce e fallisce. L’adesso in real time è scandito dalla vita comunicata in immagini e parole di milioni di persone che si specchiano negli schermi interattivi collegati alla rete. Persone lontane con il corpo ma vicine con la mente.
Il villaggio globale presagito da McLuhan (1969) si è compiuto dopo l’11 settembre (2001) soprattutto nella realizzazione di un modello condiviso di linguaggio di comunicazione e gestione della società civile. Le parole del mondo nuovo della comunicazione derivano dalle parole della guerra: target, focus on, agenda, strategy, brain storming, think thank. Parole che sono entrate nel nostro vocabolario neurale, come un virus che turba la vita di una tranquilla colonia di batteri. Queste parole hanno combattuto con le parole della poesia o dei dialetti, ed hanno vinto agevolmente perchè la parola guerra è un meme molto energetico. Agisce sulle zone del cervello che controllano gli istinti alla sopravvivenza e regolano l’attrazione sessuale. All’inizio degli anni novanta, quando ancora non era stato inventato il world wide web, l’unica risposta al cosa stai facendo adesso sarebbe stata sicuramente: siamo in guerra! L’attacco alle torri gemelle (2001) vissuto in telepresenza ha lasciato alle nuove generazioni un mondo digitale da ricostruire, post-bellico. Ma dopo ogni guerra c’è un boom figlio della voglia di continuare a sperare in un mondo migliore. La rinascita post 9.11 è stata la scoperta del secondo web. Ovvero tutte le applicazioni scritte in meno di un decennio per la comunicazione online attraverso la tecnologia del world wide web potevano già permettere a chiunque di pubblicarsi sulla rete e condividere quello che stava facendo, se lo sapeva fare e conosceva i codici di rappresentazione comprensibili dalle macchine in rete (server/client). Nel 2004 Tim O’Really in una conferenza istantaneamente storica annuncia il secondo web nominandolo Web 2.0, proprio come la nuova versione di una precedente applicazione software. Quale il web è, e rimane, anche se gli effetti sulla conoscenza e coscienza degli umani sono stati talmente inaspettati per le generazioni del vecchio web che non si capisce come mai non ci si aveva pensato prima. Effettivamente prima del 2001 non c’era bisogno del web 2.0. Le relazioni sociali in buona parte dell’Europa si svolgevano ancora in piazza per i più anziani, a scuola per i ragazzini e al lavoro per gli adulti. L’unico schermo comune era il televisore. Un televisore sempre più grande ed invadente. I flussi di informazione sempre più precari e visivamente poco suadenti viaggiano in forma monodirezionale dalla televisione alla persona. Il senso di controllo del telecomando è illusorio e foriero di isolamento mentale. Lo schermo interattivo è arrivato nelle case della gente come una sorta di liberazione dal potere rimbecillente della televisione.
La rete al tempo del Web 2.0 non è più un villaggio globale ma una enorme città globale, ovvero una struttura dissipativa di informazione, che si nutre delle connessioni stabilite, anno dopo anno, con una popolazione di utenti che ha superato il miliardo di individui.
L’esempio più semplice di strutture dissipative che si può evocare per analogia è la città. Una città è differente dalla campagna che la circonda; le radici di tale individualizzazione risiedono nelle relazioni che essa intrattiene con la campagna attigua: se queste venissero soppresse, la città scomparirebbe.
( Ilya Prigogine, Le leggi del caos, Edizioni Laterza, 1993, p. 15)
Una massa composta principalmente dalle nuove generazioni di nativi digitali che hanno fatto della rete il territorio preferito delle attività sociali che le generazioni precedenti avevano coltivato tra le strade asfaltate delle grandi città o tra i muretti di pietra dei piccoli villaggi agricoli appena fuori la periferia urbana.
I sistemi informatici ci stanno guidando verso un mondo di competizione spietata che per molti di noi risulta distruttiva. I sistemi informatici impongono vincoli economici e culturali davanti ai quali non abbiamo la forza di resistere. Essi sono per lo più utili ai ricchi e permangono inaccessibili ai poveri e ai non istruiti, aumentando così le barriere e le disuguaglianze tra ricchi e poveri. Al danno aggiungono la beffa, con la minaccia di ridurre gli uomini allo stato cellulare di un organismo multicellulare insensibile alle necessità e ai desideri dei singoli. Ma noi continueremo pur sempre a essere in grado, come individui, di far valere le nostre necessità e i nostri desideri.
(Freeman J. Dyson, Il Sole, il genoma e Internet. Strumenti delle rivoluzioni scientifiche, Bollati Boringhieri, 2000 p. 143)
Le tecnologie della rete sono edifici abitati dal tempo di collegamento di milioni di persone incanalate attraverso lo schermo del computer in flussi di interesse, visibili in roteanti nuvole di parole chiave – tag – ed accessibili attraverso la freccia puntata su un hyperlink. L’accesso istantaneo alle informazioni che chiunque può liberamente classificare secondo la descrizione di una propria passione (folksonomy) ricompensa l’utente con una buona possibilità di incontrare altre persone con gli stessi interessi, visto che non ha più tempo di andare in piazza, o la piazza non esiste perchè abita in una metropoli. Il Web 2.0 è stato scoperto come l’America da Cristoforo Colombo, il continente era già tutto lì, bastava andare a sbatterci la testa. Il continente del world wide web pensato e scritto da Berners Lee nasceva dal desiderio di condividere informazioni memorizzate su un hard disk collegato ad internet con altri colleghi in forma libera e partecipata. I privilegi di scrittura di internet potevano essere liberati, e chiunque imparasse la nuova lingua (HTML) aveva la possibilità di creare nuove pagine, ognuna con uno specifico indirizzo, creare nuovi collegamenti tra le pagine registrate su server lontani, poco importa se la distanza è quella di un corridoio o di un oceano, mostrare sugli schermi collegati immagini a bassissima risoluzione, scaricare sul proprio computer bits d’interesse. In breve tempo il programma del world wide web ha cominciato a girare su migliaia di server in ogni nazione del mondo, diventando preda delle compagnie telefoniche, le uniche che avevano portato i cavi nelle case della gente dopo l’invenzione del telefono. Ed internet, che regge il web, ha bisogno di cavi elettrici ed antenne per esistere.
Noi abbiamo creato il computer per farci servire. L’idea che potrebbe diventare il nostro padrone è stato argomento di fantascienza per decenni, ma è stato sempre difficile prendere sul serio storie del genere quando ci volevano sforzi eroici per far fare a un computer le cose più elementari. Ora che cominciamo ad accettare il World Wide Web come una parte naturale della nostra esistenza quotidiana, forse è arrivato il momento di rivisitare la questione del controllo.
(Paul E. Ceruzzi, Storia dell’informatica, Apogeo, 2005, p. 407)
I social network trattengono l’animo degli utenti con le domande che ci facevamo tra umani. Domande per scoprire chi siamo attraverso l’altro. Domande per capire dove sto andando attraverso l’altro. L’altro non può essere sostituito dal computer. I social network non mettono alla pari gli utenti con la sorgente del potere. I problemi sociali del mondo esterno rimangono intrappolati sulla soglia delle interfacce e si rifiutano caparbiamente di andare avanti o indietro, sopra o sotto, di qua o di là.
In breve, inter-faccia significa precisamente che il mio rapporto con l’Altro non è mai faccia a faccia, ma che esso è sempre media(tizza)to da un macchinario digitale che si frappone, che rappresenta il “grande Altro” di Lacan, come l’anonimo ordine simbolico la cui struttura è quella del labirinto: io “esploro”, navigo in questo spazio infinito in cui i messaggi circolano liberamente senza una destinazione stabilita, mentre l’insieme di ciò – questo immenso circuito di “sussurri” – rimane per sempre al di fuori della portata della mia comprensione.
(Slavoj Zizek, Lacrime rerum. Saggi sul cinema e il cyberspazio, cit., p. 347)
Responsabilità della comunicazione
Il problema è inventare una comunicazione responsabile comprensibile al di là del linguaggio verbale, in maniera da parlare allo stesso modo nella molteplicità delle lingue naturali. La scelta di paesaggi che riempiono interamente lo schermo, nascondendo la scrivania – desktop, nasceva dalla necessità di accompagnare il navigante verso il superamento della sua soglia emotiva e lasciarsi avvolgere dal racconto di immagini in movimento, suoni e interazione agiti attraverso il tocco del mouse. La creazione artistica nel virtuale non può esprimere un concetto statico, un’opera che si chiude su se stessa, ma deve aprire a processi dinamici di interazione tra il navigante spaesato e una narrazione digitale che si configura secondo regole che possono nascere dal movimento dei fluidi piuttosto che dalla gravità che ci appiattisce nel mondo reale.
«Virtuale è lo spazio che vediamo sullo schermo dell’interfaccia, questo universo di segni e immagini meravigliose attraverso le quali possiamo navigare liberamente, un universo proiettato sullo schermo che crea su di esso una falsa impressione di “profondità” – nel momento in cui oltrepassiamo la sua soglia e osserviamo ciò che vi è “effettivamente” dietro lo schermo, non troviamo altro che un macchinario digitale inanimato». (Slavoj Zizek, Lacrime rerum. Saggi sul cinema e il cyberspazio, cit., p. 277)
Lo spettatore tradizionale partecipa con il proprio corpo al qui ed ora di una performance o di uno spettacolo. Lo spettatore di internet partecipa con il suo sguardo e le sue azioni con il qui ed ora dello schermo interattivo. Lo spettatore di un opera interattiva supera la quarta parete del teatro. Lo spettatore diventa attore nella costruzione delle risposte e la macchina diventa lo specchio della realtà interiore, del desiderio antico di comprendere i comportamenti della natura. Il design di ambienti digitali parla alle azioni del navigante, i racconti sono distribuiti in forma non lineare, la creazione di senso si scioglie nelle interpretazioni soggettive e la macchina che sottende il processo creativo elabora in tempo reale risposte progressive alla capacità di andare a fondo da parte dello spettatore. Il processo creativo necessita di un percorso di conoscenza della macchina e di un tempo produttivo che accompagna l’autore nella frammentata esperienza del nuovo mondo. L’arte digitale, mimetica per artificio, ha teso la mano agli spazi di produzione multi disciplinari, dove non esiste un unico autore, ma diverse persone sono chiamate ad interagire con le proprie idee e conoscenze per orientarle alla costruzione di progetti condivisi. Lo sguardo è la tecnologia a bassa definizione delle emozioni, l’azione è la necessità del movimento interiore verso l’ignoto. Senso e movimento abitano gli spazi mentali degli autori che architettano le possibili risposte dello spettatore utilizzando nel programma dell’ambiente digitale il più prezioso degli elementi per la conoscenza dei comportamenti del mondo: la casualità. La macchina in grado di prendere decisioni è il punto di partenza nella costruzione di ambienti interattivi che non simulano la realtà in quanto tale, ma ne offrono una visione senza gravità, più vicina all’azione psicocinetica del sogno che all’architettura funzionale di una piazza rinascimentale. Nel sogno non sai mai come andrà a finire! Le storie sono il modo in cui l’uomo vive e condivide il mondo con sé stesso e gli altri. Non esiste una storia o una narrazione che non si affida alle leve magiche e misteriose della natura della percezione umana. Nella tradizione orale le storie si aggrappavano al mito permettendo alla memoria delle storie di fluire da mente in mente attraverso lo strumento della voce.
L’oralità primaria si faceva sentire nell’intenso scambio tra oratore e pubblico e nello stile additivo, ridondante, con attenti bilanciamenti, altamente agonistico; alla fine gli avversari erano rauchi e fisicamente stremati.
(Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, cit., pp. 192 – 193)
La nostra mente riesce a memorizzare meglio alcune storie rispetto ad altre perché il senso della storia, i punti di riferimento narrativi, quando vengono ascoltati, si disegnano in pattern biologici – memi – sulla rete neurale del nostro cervello.
«Il nuovo brodo è quello della cultura umana. Ora dobbiamo dare un nome al nuovo replicatore, un nome che dia l’idea di un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione. “Mimeme” deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferirei un bisillabo dal suono affine a “gene”: spero perciò che i miei amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme in meme. Se li può consolare, lo si potrebbe considerare correlato a “memoria” o alla parola francese mème. Esempi di memi sono melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi. Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo, così i memi si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione». (Richard Dawkins, Il gene egoista, cit. , p. 254).
Verso un teatro dell’infinito
Questo è quel che faremo nel seminario di Londra. Lavoreremo in piccoli gruppi per recitare scene delle nostre vite, magari una scena svoltasi a cena, e inframmezzando la scena con i movimenti, per esempio, la balena o la farfalla. Con la respirazione espansa e il cambiamento di consapevolezza che i movimenti producono l’attore può divenire più consapevole, recitando ripetutamente la scena, della maschera sociale che indossa – delle posture che adotta, letteralmente – e delle supposizioni e dei giudizi che potrebbe avere riguardo alla sua famiglia, ai colleghi, amici o a se stesso. Vedendo quelle posture, giudizi e supposizioni, si può cominciare a superarli, ad acquisire empatia e espandere la propria visuale. E quando si fa ciò si altera il campo delle proprie interazioni e quelle nuove possibilità divengono ora disponibili per essere adottate nella vita quotidiana.
(https://kilianarthran.wordpress.com/tensegrita/il-teatro-dellinfinito/)