Ci sono aspetti nella vita di Rina che giusto in mezzo secolo di vera amicizia e condivisione sono ancora avvolti dalla nebbia. Fatti salvi la capacità di scrittura, l’insuperabile vena narrativa e il saper recitare, nel senso che era in grado di tenere la platea e andare in scena in qualsivoglia occasione, per noi che l’abbiamo conosciuta e frequentata quotidianamente restano dubbi e misteri difficili da disvelare.
Ad esempio: sapeva cucinare? Tra i fornelli Rina se la cavava e le cene a casa sua erano di tutto rispetto, anche se sull’azzardo della cucina cinese preferisco sospendere il giudizio, tanto che spesso era proprio lei ad organizzare spedizioni culinarie in ristoranti cinesi con Marinella, Camillo e Giovanna o in quella “Luna dei borboni” di San Cesario, dove Bucci trafficava in cucina, preparando pietanze per menu appaganti.
Se poi, però, la mèta era San Foca o via Perrotti a Lecce per le cicorielle a casa di Gino e Beatrice, argomento di sue feroci illazioni, la prospettiva cambiava perché il pasto non poteva essere di sole verdure ma bisognava allargarlo con l’aggiunta del maiale e, soprattutto, di un primo a base di pasta, che non doveva mai mancare. In ogni caso, per maggiori approfondimenti, rimando al “Simposio”, non quello di Platone ma quello di Gino, che chissà che fine avrà fatto. Tutto cominciò, però, con “Pane, pesci e briganti” e “Rucola e caviale”, ricettari allora d’avanguardia entrambi diffusi da “Quotidiano” e, dopo, con “La guida dell’Espresso”, con la quale trafficava in giro per l’Italia Sergio Spina, trasformatosi da regista di punta della Rai in “regista de paura” con il libro “Killernet”. Poi arrivò “L’oro del Salento”, che curai postumo dopo la sua scomparsa, monumento alla storia sociale dell’olio d’oliva in Terra d’Otranto e alle rivolte delle raccoglitrici al grido di “morte al cappuccio, viva il paniere”.
Fu così che Rina divenne, per nostra fortuna, gastronoma e dispensatrice di consigli per dove andare la sera a cena: dall’Egiziano a Santa Maria al Bagno o al Fornello da Ricci a Ceglie Messapica, alla Lanterna di Martano o a Lu Puzzo di Sternatia, al Gatto Rosso di Mario Blasi a Melpignano o dai Sanna a San Foca, da Bardi al porto di Otranto o nelle nostre case? Per non farci mancare niente, dalle polpette del deserto all’agnello arrosto, le alternative erano tante – complice anche il carnevale della Grecìa salentina – ma in un caso fu scelto a sorpresa Luna Rossa di Federico Vallicenti a Terranova del Pollino per festeggiare un suo compleanno, accolti da un diluvio universale e da un freddo albergo fuori paese. Lì, come in tanti ristoranti pugliesi o lucani, dovrebbe fare ancora bella mostra di sé un suo articolo sulle virtù della cucina lucana e del peperone crusco, esposto incorniciato su una parete come quello nel porticciolo greco di Fiskardo, che raggiungevamo con l’Alalonga, la sua barca condotta come un nachiro da Rina, marinaia figlia di marinaio.
Ma la scelta più a lungo meditata, anche perché Rina era testimone di nozze di Giovanna, fu dove fare festa con parenti e amici dopo il nostro matrimonio celebrato dal sindaco Corvaglia: la scelta cadde su Angelo Ricci a Ceglie per un indimenticabile pranzo nuziale, raggiunti in seguito da Sergio Spina. Una sola sbavatura, purtroppo, perché dimenticai che mia madre non mangia agnello e, dunque, per lei Angelo organizzò un menu apposito, altrettanto di grande qualità.
Altro dubbio: ma se Rina non sapeva cantare, essendo stonata più di una campana, come faceva a partecipare ai nostri Festival degli Irripitirri o a condurre, cosa ben più seria, le ricerche su pizziche, tarantismo e canti del Salento? E se non amava molto la poesia, salvo quella di Foscolo e Rilke, come faceva ad essere amica di Vittorio Pagano, poeta raffinato e traduttore dei maledetti francesi? Qualcuno me lo dovrà pur spiegare perché, se nel nostro ristretto Festival annuale tutto finiva in gloria, con tutti che potevano fare di tutto, e nel folklore le stonature venivano esorcizzate dai canti eseguiti dal Canzoniere, il mistero dell’asse Pagano-Durante resta un mistero. O basterà rileggere tra le righe “Morte per mistero”?
Una parola definitiva, inoltre, va detta su Gandalf, che non è il personaggio di Tolkien bensì il cane di Rina. O di Rita? Il mistero qui si fa fitto poiché, alla prova dei fatti, quando Gandalf sparì dalla casa di Bibi e Luigi nella Valle della Cupa, chi più si disperò con lacrime amare fu Rita e non la zia Rina, che giorno dopo giorno lenì il dolore facendosene una ragione dato che, essendo lei stessa una persona libera sin dall’infanzia sull’isola di Saseno, non poteva pretendere che il suo amato cane lo fosse di meno.
Infine, l’ultimo mistero, in questo caso gaudioso o gioioso ma pur sempre oscuro: ad un certo punto delle nostre vite Rina prese la strada per lo stadio, non per raggiungere casa di Lillino e Leda, ma per seguire il Lecce di Jurlano che per la prima volta giocava in serie A. Un avvenimento epocale per la piccola patria, ma che c’entrava con la febbre da tifosa se Rina a malapena sapeva cosa fosse un dribbling o un traversone? Eppure sistematicamente era in tribuna stampa ogni qualvolta i giallorossi disputavano la gara in casa, con relativo suo commento da pubblicare sul giornale, oggetto delle nostre immancabili discussioni da profani su quello che viene chiamato il gioco più bello del mondo, sebbene uniti dalla Lupa a dai colori delle maglie che identificano il Lecce e la Roma, anzi la “Rometta”.
Così, in questi dieci anni che non vedo Rina, spero che tra il serio e il faceto sia proprio lei a disvelarmi queste incognite, ma non ci conto molto e, forse, è meglio che restino tali. Intanto, continuo a rileggere il tanto che ha scritto, un esercizio migliore che potrà aiutarmi a conoscerla ancora di più perché con lei le sorprese non finiscono mai.
Massimo Melillo