“E’ possibile che la vita sia determinata da una semplice risposta?”.
Scrisse Terzani ne “La fine è il mio inizio”. Un libro in cui, un padre morente, decide di lasciare la vita conversando con il proprio figlio, Folco.
E’ quello che tutti i padri dovrebbero sempre fare: insegnare ciò che hanno imparato.
E’ ciò che è successo a me, quando mio padre mi ha consegnato il suo ultimo libro. Ci aveva lavorato durante tutta la vita. L’ha cresciuto come un figlio, rigo per rigo. Educando ogni parola al ritmo della poesia della sua vita.
Quando gli consegnammo una copia fresca di stampa, lui era appagato. Poteva anche morire. Tutto ciò che d’importante aveva imparato, era scritto lì dentro. Io non ero ancora in grado di comprendere. Pensavo di conoscere tutto di lui per il semplice fatto di essere suo figlio.
Allora gli chiesi: – quanto costa?a che prezzo lo vendiamo?
Lui mi guardò, con il suo consueto sguardo di serafica profondità, e mi disse:
- se lo vendi giuro che se resuscito, verrò ad ucciderti con le mie mani.
Pensavo scherzasse ma, con lui, non si poteva mai sapere!
- Dico sul serio papà, abbiamo stampato quasi mille copie e dobbiamo pagare la tipografia…
Firmò un assegno con la cifra dovuta alla tipografia e mi disse:
- questo è il mio regalo per voi. Usatelo come una chiave. Scambiatelo solo con chi vi può dare qualcosa che valga quanto vostro padre. Ogni volta che lo vendete, state vendendo me.
Mi sembrò una delle sue frasi iperboliche, volte a provocare riflessioni di cui non immaginavo la vastità.
Da allora, però, ho cominciato a vedere le cose con occhi diversi.
Ciò che avevo intorno, di più bello, non mi apparteneva: non l’avevo creato io. Era dono di qualcun altro che, prima di me, aveva lavorato duro. Nemmeno i ricordi che mi porto dentro, a dirla tutta, sono solo miei. Sono in coabitazione con qualcuno o qualcosa che non mi appartiene.
I muretti iniziarono a parlarmi con la lingua dimenticata del nonno Peo e il mare, nottetempo, scintillava dei bagliori delle lampare di genti d’ogni lingua e cultura.
Nulla di quello che dona pace e sollievo alle fatiche di una schizoide frenesia quotidiana mi appartiene.
Se non per un diritto ereditario.
Che culo che è il diritto ereditario! Per alcuni, per altri è una bella fregatura!
E’ sempre stato così. Chi nasceva figlio di faraone, chi di re, chi di schiavo, chi figlio di Berlusconi e chi figlio di un poveraccio senza nome.
Il diritto ereditario, nella nostra società, ci pone nella condizione di stabilire il valore di ciò che abbiamo ereditato.
Possiamo decidere di venderlo o di tenerlo per educare i nostri figli. Possiamo stabilire un prezzo o usarlo per costruire una collettività migliore del passato, per consegnarlo (ameno) intatto alla fine del nostro passare.
Posso vendere una casa, una campagna, un albero, l’olio che spremo, i frutti che raccolgo, il mare che mi bagna, l’acqua che bevo, l’aria che respiro?
Secondo la visione occidentale posso, anzi devo. E’ l’economia del progresso diamine!
Potrei decidere di vendere il libro di papà, ma poi dovrei fare i conti con l’incubo di dovermelo ritrovare ectoplasma incazzato. Potrei vendere la terra che mi ha lasciato, ma dovrei dare un valore alla voce del nonno che parla attraverso il vento che si infila nelle pietre infilzate nei muretti.
Potrei decidere di vendere tutti i libri che posseggo, gli appunti, i versi fluidi e spezzati, i racconti accumulati nella pagine mai stampate e persino i ricordi che mi abitano; e se poi la memoria si svuotasse a tal punto da non conoscere più il nome delli morti mei? Basterebbe un portafogli gonfio a comprare il rispetto dei miei figli?
Potrei decidere di tagliare a pezzi ogni albero d’olivo e venderne i ceppi, prima che giunga la furia devastatrice di un decreto ministeriale; potrei farne legna da ardere in qualche camino di design, ma poi dovrei fare i conti con i demoni di Pan e delle ninfe infuriate.
Potrei vendere le mie parole e le mie canzoni, i miei suoni e le mie nenie, le mie danze e i mei tamburi, ma mi scoppierebbero i timpani a sentirle adattate, violentate, deformate ad ogni riproposizione confezionata per il turismo cannibale.
Potrei vendere storia, farne pacchetti di silenzio, potrei vendere ogni spiaggia e ogni duna, persino il mare potrei consegnare ad un prezzo congruo, e financo la mia arte e il mio impegno, la mia abnegazione e i miei legittimi sogni di non morire come l’ultimo dei coglioni nell’estremo lembo di un sud che non è mai troppo a sud.
Potrei vendere l’aria e la salute dei mie figli, gli scampoli di tempo che una volte dedicavo alla solidarietà, all’accoglienza di fratelli e sorelle esauste. Potrei vendere il vento e il sole e poi anche un bel buco nero. Sono il padrone della galassia, della terra, delle sue risorse, della sua gente, dei suoi sogni, sono padrone di Dio e di ogni altra forma di deità passata… ma poi, morirò come tutti, magari avrò fatto tanti soldi. Ma morirò senza essere stato capace di rispondere ad una semplice domanda:
- quanto costa ciò che ho ereditato?
ovvero
- quanto costa mio padre?