di Alessandro Santoro
Allo scoppiare della pandemia da Sars-Covid2 ho preso una decisione: trasferirmi in campagna e leggere molto coltivando tanto.
L’eco di alcune letture giovanili mi aveva suggerito la regola numero 1 da rispettare in caso di epidemie: evitare luoghi affollati (tutte le epidemie dilagano in luoghi del genere). E, possibilmente, studiare cercando di essere alimentarmente autosufficiente.
Nel mio caso trovo le storie di attenti cronisti del passato una fonte di grande ispirazione (da Camus a Roth fino a Honigsbaum) da sfogliare tra un filare di pomodori e uno di broccoli. Non v’è bisogno di leggere Boccaccio (ma aiuta) per trarre questo semplice insegnamento eppure, quando si è a corto di conoscenze, puoi fare solo due cose: accettare quello che ti viene raccontato o costruirti una tua narrazione.
La prima opzione è la più seguita. Non da ora. E’ sempre stato così.
Basti pensare a quanti anni sono trascorsi prima che la comunità mondiale potesse accettare che il sacro dogma dell’insigne Dottor Welch (per intenderci quello che ispirò la Johns Hopkins University… quella che tiene il conto dei malati e dei morti nel mondo con il suo super condiviso link web) fosse messo in discussione: non era un bacillo a provocare l’influenza spagnola ma un virus.
Gli scienziati lo sanno che nella scienza “la certezza assoluta non esiste”. Ora lo stanno capendo anche i cittadini meno avvezzi alle scienze.
L’iper comunicatività schizofrenica in cui il mondo si trova non aiuta certo a dissipare dubbi e a focalizzare l’attenzione.
Eppure, in qualsiasi epidemia passata, è stata proprio una dosa extra di attenzione a risolvere la situazione. E sarà l’attenzione a portarci fuori da questa pandemia: prima ci concentriamo prima ne usciamo.
Pasteur, il papà della microbiologia, si accorse che i microbi deboli o attenuati, stimolavano l’ospite a produrre sostanze (anticorpi) che lo proteggevano, inaugurando così, di fatto un nuovo campo della microbiologia: l’immunologia.
Un suo esperimento destò scalpore. Iniettando il midollo spinale di un cane colpito da rabbia in un coniglio e poi in un altro e un altro ancora e poi di nuovo nel cane, riuscì ad aumentare la virulenza nei conigli e a diminuirla nei cani e, quando iniettò il siero di questo primordiale vaccino in un bambino morsicato da un cane con la rabbia facendolo guarire in pochissimo tempo, la notizia fece il giro del mondo.
La cosa più strabiliante, vista con gli occhi di oggi, è che Pasteur avesse trovato un vaccino nonostante non avesse mai visto un virus. Pasteur non poteva nemmeno sapere cosa fosse un virus. Era il 1885. Solo nel 1933 alcuni scienziati, anche questi molto attenti, dimostrarono l’esistenza dei virus. Quasi casualmente, osservarono che alcuni furetti su cui stavano studiando il cimurro canino, avevano infettato uno scienziato su cui un piccolo furetto aveva starnutito.
Successivamente, nel 1934, si iniziò a capire che era possibile coltivare virus (negli embrioni delle uova di pollo) affrancando i ricercatori dal dover prelevare campioni da soggetti infetti durante una epidemia e di dover abbandonare la ricerca una volta che questa si fosse esaurita.
La storia delle epidemie che si sono susseguite a partire dalla prima guerra mondiale, suggerì a tutti che l’ammassamento indiscriminato di migliaia di uomini in campi militari sprovvisti di strutture sanitarie adeguate fosse la causa principale del dilagare di influenze che portavano a morti orribili.
Qualcuno chiamò la spagnola “morte blu”. Il blu era la conseguenza di una morte orribile, avvenuta per il collassamento dei polmoni. Le persone soffocavano letteralmente nel loro muco e sangue.
Potete trovare centinaia di raccapriccianti descrizioni di illustri narratori e attenti osservatori.
Su questo è interessante notare come la parola “influenza” deriva dalla locuzione latina “influenza coeli”: influenza del cielo.
Nessuno aveva mai associato morti tanto orribili ad una semplice influenza, vista per lo più come uno stato momentaneo di indisposizione.
Sappiamo oggi che l’influenza spagnola ha prodotto circa 50 milioni di morti. Cinque volte di più dei morti caduti nella Prima guerra mondiale e 10 milioni in più delle vittime causati dall’Aids in trent’anni. E’ fatalmente la Johns Hopkins, oggi, ad aggiornarci dei morti da Sars- Covid2: mentre scrivo il dato è aggiornato a 1,099,586. In meno di un anno dall’inizio della Pandemia.
Fu il commissario sanitario di New York, Royal Copeland, nel 1918, a prendere l’insolita iniziativa di ordinare quarantene.
Questa pratica, così conosciuta e detestata oggi, non era mai stata presa prima per una “semplice” influenza.
E fece incazzare molto anche allora perché ai malati ricchi era permesso di restare a casa mentre i poveracci venivano trasferiti negli ospedali di città per essere tenuti sotto osservazione andando incontro alla famigerata saturazione delle capacità di cura. In breve gli ospedali si trasformarono in trappole mortali dove le persone, agonizzanti, infettavano anche infermieri e medici in un circolo vizioso che abbiamo conosciuto in questi drammatici mesi.
In quegli anni si passò dal considerare l’influenza una malattia non degna nemmeno di esser denunciata, agli ispettori sanitari che andavano porta a porta a rastrellare bambini che accusavano sintomi di “paralisi infantile”.
Le mascherine, che sono diventate l’incubo di tutti noi, trasformando il mondo in un immenso ospedale a cielo aperto e che tanto sono avversate dai più giovani; non possono sapere i più giovani (ed anche i tanti che pensano che “la scuola non serve a niente”) che fu proprio la mascherina il segno più visibile del contagio in corso nel 1918: indossate da poliziotti e dal personale sui tram (curiosa coincidenza che il trasporto pubblico si rivelasse un punto nevralgico allora come oggi?), questa pratica dilagò grazie alla pubblicazione sulle prime pagine dei quotidiani (il primo fu il Chicago Herald Examiner) di una guida per fabbricare in casa mascherine di garza a maglie strette (altra coincidenza?).
Fu un medico dell’Illinois a redarguire che le mascherine fatte a casa non erano adatte perché “inadeguate a catturare e filtrare i bacilli contenuti nel getto nebulizzante effuso dalla bocca delle vittime”. Altra curiosa coincidenza. Allora come ora il mondo non era preparato all’uso delle mascherine. Non si trovavano da nessuna parte. E quelle autoprodotte, di fatto, non servivano ad una benamata…
Non possono sapere tutto ciò i nostri giovani perché, a volercela raccontare tutta, il vuoto educativo da scongiurare, sventolato come causa nobile dai governanti in questi giorni è già un abisso in cui siamo tutti dentro.
Anni di massacro dei sistemi educativi su scala planetaria hanno prodotto una classe dirigente del tutto ignorante. Della storia, prima che della scienza.
Il vuoto educativo è stato scavato negli anni passati in cui lo studio e l’educazione delle masse è stato sacrificato sull’altare di un progresso cieco e feroce.
Dove gli ecosistemi sono stati aggrediti e smembrati con il silenzio, cieco, ottuso di una massa enorme di ignoranti, edulcorando il tutto con il cazzeggio di una modernità piena di giocattoli e oggetti di consumo futili.
L’umanità ha invaso luoghi abitati da animali portatori di patogeni sconosciuti, ha ingurgitato carne macellata da ogni sorta di habitat, ha sventrato la natura fino a renderla nemica.
Tutto questo è accaduto perché il vuoto culturale ha fatto dimenticare cose che, in fondo, basta sfogliare qualche libro, basta studiare seriamente fino al termine dell’obbligo scolastico. E invece si è preferito addestrare milioni di giovani alla catena di montaggio, svuotandoli di ogni desiderio di conoscenza che, se assimilata, renderebbe essi uomini veramente liberi.
Abbiamo trasformato la parola libertà in un vago desiderio di possesso.
Ecco chi siamo oggi.
Senza prenderci in giro possiamo affermare che sapevamo tutto sulla seconda ondata e sulla terza e quarta e così via.
Tutte le epidemie funzionano così. Darwin ce lo dovrebbe aver insegnato: l’obbiettivo primario del virus è sopravvivere abbastanza a lungo da fuggire e infettare un nuovo recettore. Una strategia di notevole efficenza è evolversi in una direzione di avirulenza, che determina nell’ospite un’infezione lieve o a malapena tracciabile. Ma perché ciò possa accadere è necessario che il sistema immunitario possa trovare il modo di domare il parassita. Ha bisogno di tempo.
Quel tempo che le nostre società non si possono più permettere, scatenando corse frenetiche, piegando e distorcendo leggi e dogmi mai messi in discussione prima.
Sappiamo per certo, dunque, che anche questa epidemia evolverà in una direzione meno virulenta. Con o senza vaccino. Nel mentre, però, sappiamo che le ondate si susseguiranno.
In uno scenario del genere, raccontare frottole, imbastire narrazioni false e tendenziose, può solo mitigare un senso di impotenza ovviamente diffuso in tutti gli strati della popolazione, ma non mitigare i danni che queste ondate portano con sé.
Riaprire le scuole può, certamente, avere un valore simbolico. Tanto quanto gli annunci a giorni alterni dell’imminente arrivo di un vaccino o le trovate propagandistiche di piccoli uomini che si cimentano nella parte del grande dittatore.
Riaprire le scuole con le attuali norme è ridicolo, offensivo verso un immaginario infantile che, per forza di cose, muterà.
Sappiamo anche questo. E’ accaduto già che la vista dei corpi in decomposizione sia divenuta cosa così comune in passato (e anche oggi in molte parti del mondo), che gli adulti neanche si adoperavano per proteggere i figli dal supplizio di osservare simili orrori.
La paura in quei casi si trasformò in panico.
Ed è ciò che dobbiamo assolutamente evitare. Salvare i bambini dall’abitudine di vedere una classe trasformata in una corsia di ospedale.
I bambini e i ragazzi oggi hanno strumenti e possibilità di non finire in quel vuoto educativo tanto paventato.
Bisogna solo aiutarli a scegliere tra le nottate passate su Fortnite (il suo fondatore Tim Sweeney,
è entrato nella top five dei più ricchi del pianeta proprio durante questa pandemia) o su improbabili veline digitali, o aprire un po’ di quei polverosi libri.
Scegliere tra il cazzeggio e lo studio.
La verità è che ci spaventa ammettere che siamo nelle loro mani.
Mani che trascorrono un sacco di tempo a manipolare omini virtuali che uccidono tutto ciò che si muove.
Abbiamo paura dell’educazione che gli abbiamo somministrato fino a ieri. Che non reggano alle sfide che li aspettano,
Abbiamo terrore di dirci che la scuola è un luogo di alta circolazione dei virus, lo sanno anche i bambini e sappiamo anche che in una normale influenza stagionale la curva dei decessi per età descrive uno sviluppo a U . Di contro, i dati relativi alla spagnola, descrivevano una forma a W, dove il terzo picco di mortalità riguardava persone sempre più giovani. Quella da Covid la stiamo vedendo e abbiamo già compreso come il virus sfrutta l’asintomaticità dei più giovani per diffondersi più efficacemente (per le ragioni descritte sopra).
Ragion per cui le scuole rappresentano, oggettivamente, un rischio difficilmente sopportabile oggi. Ce lo dice la storia recente e la logica dell’osservazione diretta.
Ecco perché penso che non basta una lavata di pavimenti, dei banchi nuovi, delle mascherine e un distanziamento per riaprire la scuola.
Serve ripensare ogni cosa.
Ma prima ancora serve riempire i pensieri di conoscenze.
Quelle che abbiamo relegato ad internet dimenticandoci di insegnare ai nostri figli a cercare le cose giuste e cassare le stronzate.
Il vaccino o la cura o l’aviralità arriverà. E’ un fatto.
Il tempo in mezzo potrebbe tornarci utile. Per ripensarci. Tutti.
Scriveva Camus: “un uomo morto ha peso solo se qualcuno l’ha visto morto, per l’immaginazione cento milioni di cadaveri disseminati nella storia sono solo fumo”. Ragion per cui non mi curo dei negazionismi e dei cialtroni. Loro non sanno perché non hanno visto. Per loro un numero non può avere il peso di un morto finche la morte in persona non li sfiora la spalla.
Infine vi lascio con l’ultimo insegnamento che ho tratto in questi mesi di studio e isolamento.
Tra qualche giorno mi sposerò. Una decisone presa dopo 19 anni di convivenza con la stessa donna. Ho capito che la fragilità si cura solo cementando le relazioni buone.
Mi sposerò perché, come ci hanno insegnato i partigiani, l’ideale vince su tutto. Se ci si applica.
Mi sposerò proprio adesso perché è più difficile farlo.
Ma ciò che è difficile da ottenere, poi, impari a tenertelo più stretto.