Chiedo scusa se mi permetto di ritagliarmi un frammento di testimonianza sul contributo mio e dei compagni dell’Oistros sulla presenza dell’Odin Teatret nel Salento. Lo faccio per una ragione molto semplice: perché allora io e i miei compagni c’eravamo e quasi tutti quelli che oggi si accodano festanti ai festeggiamenti o non ci stavano, oppure erano impegnati a curare i loro interessi privati spesso saccheggiando quello che rimane dei beni pubblici.
E straparlano senza ritegno di ‘radicamento’, ‘baratto’, ‘Festa te lu mieru’ come fossero stati proprio lì dove quelle parole indicavano fatti che si addensavano sul corso lento della vita di un territorio, tra le maglie delle vite di attori non più attori; di studenti e docenti dell’Università del Salento che arricchivano il loro impegno accademico con la ricerca sul campo con l’obiettivo d’individuare le fiammelle di energia capaci di riattivarsi per far rinascere un corpo sociale stressato dall’emigrazione, dall’opera devastatrice delle ‘cattedrali nel deserto’ della siderurgia, della chimica, dall’opera di dissanguamento da parte di una classe dirigente che usava l’arte e le istituzioni culturali come pennacchio.
Alla luce dei dati sull’attuale situazione sociale, culturale ed economica del nostro territorio non credo che abbiamo proprio vinto. L’Odin ha vinto. Meritatamente. Perché il suo obiettivo principale era quello di trasformare alla radice il senso del fare teatro, delle modalità di produzione dello spettacolo, delle relazioni tra le figure impegnate nel percorso creativo compreso quello che Taviani ha definito lo “spettatore abnorme”.
E questo, non per sminuire il contributo dell’Odin, semmai, al contrario l’obiettivo è quello di esaltare la specificità dell’Odin all’interno del complesso di attività di animazione realizzate dall’Oistros; attività che provenivamo dalle esperienze precedenti: interventi nelle scuole e al centro spastici di Cutrofiano, ospedale psichiatrico, carcere minorile .
Un’ osservazione polemica sarà invece riservata alla capacità che hanno gli storici della domenica di cancellare fatti, circostanze e motivazioni relative ad esperienze particolarmente complesse e contraddittorie.
Come docente di Storia del teatro e spettacolo vorrei in conclusione riservare qualche osservazione alle problematiche relative alla ricostruzione storica fatta sui pieni (documenti di varia natura) e quella che possa includere foucaultianamente anche i vuoti, cioè quello che i documenti tacciono o soprattutto oscurano.
E ora voglio spiegare perché ho scelto come inizio del percorso un momento di riflessione su La vita cronica, l’ultimo vero spettacolo dell’Odin. E’ uno spettacolo che sebbene contenga un groviglio di temi, tutto ruota intorno a quello del funerale. Un funerale che contiene altri funerali individuali e collettivi. Ma, soprattutto. un funerale messo in scena prima della morte di Barba e dell’Odin. Quasi a voler consegnare al futuro il senso di un’esperienza artistica e umana che ha svoltato i cinquant’anni.
Qualcuno potrà leggere la scelta di Eugenio Barba e dei suoi compagni di viaggio come un estremo atto di superbia. Sbaglia. Si tratta invece di un estremo atto di umiltà. La trama dello spettacolo, infatti, ci offre pochi pieni e tanti vuoti gorgoglianti inquietudine da cui emergono domande su domande. Personalissime, come quelle sul comportamento davanti all’agonia e alla morte del padre. Collettive, come quelle che sgorgano dalla morte di Torgeir durante la costruzione dello spettacolo. Civili, come quelle che s’affacciano dalla dedica alle due scrittrici russe, Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova, vittime di guerre periferiche, e che si diramano in mille rivoli di violenza. Domande su domande che ci spingono sull’orlo del baratro dove danzano l’essere e il non essere.
C’era un altro salentino che voleva celebrare il proprio funerale prima di morire. L’aveva immaginato come una giornata di festa con canti e danze sulla terrazza del castello di Otranto. E la banda che dall’alba al tramonto riempisse l’aria con le note di Casta diva dalla Norma di Vincenzo Bellini. Forse Carmelo Bene dilatava i deliri di Nostra signora dei Turchi, forse immaginava che il flauto e l’oboe che aprono la ‘cavatina’ fossero le ossa dei martiri che inquietano il silenzio della cattedrale.
L’Oistros non può celebrare il suo funerale. L’Oistros non stato una persona e nemmeno un gruppo stabile. Persino il suo stato giuridico è cambiato continuamente. E la sede quanto di più instabile si possa immaginare: da un’aula dell’Università di Lecce fino a un sito in internet, passando per un ex pollaio e spazi di fortuna in diversi comuni. E le persone: più che entrare nel e uscire dal gruppo, lo hanno attraversato. Come una sorta di sala d’attesa tanti si sono fermati il tempo indispensabile per prendere un treno che li conducesse altrove.
Allora, se per Carmelo Bene il senso dei suoi percorsi è franato sull’impossibilità di ‘togliere di scena’ il suo funerale e se per l’Odin il senso dei suoi percorsi s’è illuminato e spento nel fuoco d’artificio de La vita cronica, per l’Oistros, che pure ha incrociato in più punti le traiettorie di Bene e dell’Odin, forse il senso del suo percorso si potrà intravedere nei brandelli di memorie di coloro che sono entrati in quella sorta di sala d’attesa che per quaranta cinque anni ha preso forma ai margini del teatro per aprirsi ai sentieri che portavano alla scuola, ai luoghi di esclusione, ai rituali preclusi, ai sogni avariati di un territorio che continua a figliare generazioni senza speranze. E se proprio nei vuoti di queste memorie lacerate si nascondessero i semi di un altro futuro?
Luigi A. Santoro