Si era nel ’69 e intorno a noi la lotta di classe assumeva forme sempre più vivaci, e sempre più violenta diventava la risposta del potere. Io allora ero a Roma, dove mi ero trasferita un paio di anni prima, e mi resi conto dell’assurdità di legare la mia azione ad un ambiente che di intellettuali ne aveva anche troppi, mentre nel Sud i partiti e le organizzazioni di massa lamentavano la carenza di quadri intellettuali, specialmente nel Salento, una zona disagiata dall’emigrazione.
Era molto più utile tornare, pensai, e continuare in Puglia il lavoro di sindacalizzazione degli intellettuali, che era un modo per sfuggire alla vecchia tentazione di cercare soluzioni individuali. Ed è stato attraverso questa attività che è emersa la necessità di dare alla nostra azione una destinazione nel sociale, di scegliere il lavoro culturale di massa.
Non si poteva decidere diversamente di fronte ad una realtà come la nostra. D’altra parte dalla base studentesca e contadina saliva come mai prima d’ora una richiesta di aiuto. C’era tanto da fare per un intellettuale di buona volontà (altro che volontarismo o codismo!), a patto però di rinunciare ai ruoli precostituiti, ad un’immagine di sé codificata da una tradizione per lo più estranea al contesto in cui si doveva operare. Occorreva innanzitutto studiare, riscoprire la nostra realtà, risalire alle origini di una cultura contadina di cui erano rimasti solo frammenti, ancorché tenacemente vivi, per rispondere alla comune domanda: chi siamo e da dove veniamo. Nel momento in cui la cultura del potere sembrava aver concluso la sua opera di annientamento del tessuto culturale preesistente, affiorava dolorosamente la consapevolezza dell’offesa subita. Il solo intervento possibile poteva essere il ripercorrere a ritroso il cammino, alla ricerca della cultura perduta. Ed ecco che si precisavano le circostanze, e persino il luoghi e i tempi di questo processo, come nel racconto di una donna di Tricase, testimone dell’eccidio del 15 Giugno del ’35: … E allora le guardie spararono sui contadini, e ne ammazzarono undici, e tanti erano feriti che nelle carreggiate scorreva il sangue. Dopo quel giorno non si sentì più cantare a Tricase…
Mentre io ero impegnata a scrivere la storia dei fatti teatrali del mio paese, prima dell’era della televisione, Gino Santoro, nell’ambito dell’Istituto di Storia del Teatro dell’Università, diretto da Nando Taviani, si andava occupando di spettacolo subalterno, ma con una apertura metodologica nuova che lo portava ad allargare il concetto di laboratorio di ricerca all’intero territorio. Inoltre lui e i suoi compagni avevano avuto una interessante esperienza comunitaria a Carpignano Salentino, nei sei mesi di permanenza in quel paese dell’Odin Teatret. L’Oistros stava già lavorando a “Emigrazione è…”, uno spettacolo costruito appunto sui materiali raccolti durante l’esperienza di carpiranno, alla quale alcuni soci del S.N.S avevano in varie occasioni partecipato. L’idea di un teatro che si costituisce all’interno di una comunità, secondo i modi dello spettacolo subalterno, era per me di estremo interesse.
Per esempio il fatto che l’attore entrasse nello spettacolo col suo bagaglio di esperienze personali cercando di visualizzarle e riassumerle in un’azione scenica, cioè conservando la sua identità sociale, che è proprio quanto avviene nel nostro teatro popolare.
Seguivo le prove dello spettacolo, e ad un certo punto ho sentito che mancava qualcosa, un elemento essenziale.
Questo elemento nel nostro canto popolare è il discanto, che ha un po’ la funzione che ha lo straniamento nel teatro di Brecht. Così ho costruito il personaggio della vecchia- bambina- sciamana, ecc.; ma davvero non era possibile delegare questo ruolo ad un altro, non avrebbe avuto senso. Così mi sono infilati gli scarponi, il camicione bianco e, voilà! ero diventata la Maggi Carmela, questa vecchia un po’ matta che nelle comunità contadine riesce ancora ad essere tollerata nonostante la sua follia. I miei compagni di lavoro dicevano: questo funziona, questo no, e per me andava benissimo, perché era la condizione per sintonizzarmi con gli altri, che per uno scrittore in fondo è l’aspirazione segreta di tutta la vita. Devo confessare che nei panni di Maggi Carmela mi sentivo a posto e soprattutto come scrittrice. Quando alla fine dello spettacolo cominciava il dibattito, era sempre Maggi Carmela che continuava a parlare.
Credo a questo punto di poter dire che non è possibile ricavare dalla mia esperienza principi generali, tranne uno: che è certamente finito il tempo in cui la norma di comportamento per lo scrittore veniva distillata nel chiuso dei circoli letterari. Noi qui nel Salento abbiamo sperimentato un modo nuovo di rapportarci, come scrittori, alla realtà circostante. Si analizza questa realtà, la si interroga, ci si comporta e si decide di agire a seconda delle risposte. Può capitare di dover mutare ruolo, di abbandonare vecchi schemi, di dover fare magari un altro mestiere, questo non è importante. L’opera dello scrittore continua, attraverso un rapporto di interdisciplinarità che muta ma non altera sostanzialmente il valore del suo apporto personale in termini di creatività e di originalità individuali.
Ciò non vuol significare la fine del libro stampato, semmai che i libri possono finire, ma l’opera dello scrittore continua. Laddove è necessario, utile, lo scrittore si spoglia dei suo vecchi abiti, diventa ricercatore, agitatore politico, teatrante, in una parola ‘animatore’.
Rocco Scotellaro è stato il primo fra noi a creare questa figura dell’animatore, cioè dell’intellettuale militante che sceglie il sociale come terreno di lotta e la cultura subalterna come terreno ideale di incontro con il mondo contadino.
Rina Durante