E ora voglio spiegare perché ho scelto come inizio del percorso un momento di riflessione su La vita cronica, l’ultimo vero spettacolo dell’Odin. E’ uno spettacolo che sebbene contenga un groviglio di temi, tutto ruota intorno a quello del funerale. Un funerale che contiene altri funerali individuali e collettivi. Ma, soprattutto. un funerale messo in scena prima della morte di Barba e dell’Odin. Quasi a voler consegnare al futuro il senso di un’esperienza artistica e umana che ha svoltato i cinquant’anni.
Qualcuno potrà leggere la scelta di Eugenio Barba e dei suoi compagni di viaggio come un estremo atto di superbia. Sbaglia. Si tratta invece di un estremo atto di umiltà. La trama dello spettacolo, infatti, ci offre pochi pieni e tanti vuoti gorgoglianti inquietudine da cui emergono domande su domande. Personalissime, come quelle sul comportamento davanti all’agonia e alla morte del padre. Collettive, come quelle che sgorgano dalla morte di Torgeir durante la costruzione dello spettacolo. Civili, come quelle che s’affacciano dalla dedica alle due scrittrici russe, Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova, vittime di guerre periferiche, e che si diramano in mille rivoli di violenza. Domande su domande che ci spingono sull’orlo del baratro dove danzano l’essere e il non essere.
C’era un altro salentino che voleva celebrare il proprio funerale prima di morire. L’aveva immaginato come una giornata di festa con canti e danze sulla terrazza del castello di Otranto. E la banda che dall’alba al tramonto riempisse l’aria con le note di Casta diva dalla Norma di Vincenzo Bellini. Forse Carmelo Bene dilatava i deliri di Nostra signora dei Turchi, forse immaginava che il flauto e l’oboe che aprono la ‘cavatina’ fossero le ossa dei martiri che inquietano il silenzio della cattedrale.
L’Oistros non può celebrare il suo funerale. L’Oistros non stato una persona e nemmeno un gruppo stabile. Persino il suo stato giuridico è cambiato continuamente. E la sede quanto di più instabile si possa immaginare: da un’aula dell’Università di Lecce fino a un sito in internet, passando per un ex pollaio e spazi di fortuna in diversi comuni. E le persone: più che entrare nel e uscire dal gruppo, lo hanno attraversato. Come una sorta di sala d’attesa tanti si sono fermati il tempo indispensabile per prendere un treno che li conducesse altrove.
Allora, se per Carmelo Bene il senso dei suoi percorsi è franato sull’impossibilità di ‘togliere di scena’ il suo funerale e se per l’Odin il senso dei suoi percorsi s’è illuminato e spento nel fuoco d’artificio de La vita cronica, per l’Oistros, che pure ha incrociato in più punti le traiettorie di Bene e dell’Odin, forse il senso del suo percorso si potrà intravedere nei brandelli di memorie di coloro che sono entrati in quella sorta di sala d’attesa che per quaranta cinque anni ha preso forma ai margini del teatro per aprirsi ai sentieri che portavano alla scuola, ai luoghi di esclusione, ai rituali preclusi, ai sogni avariati di un territorio che continua a figliare generazioni senza speranze. E se proprio nei vuoti di queste memorie lacerate si nascondessero i semi di un altro futuro?