Della Taranta sappiamo tutto. Del ragno, intendo.
Un aracnide decisamente interessante. Qui al sud dei sud abbiamo imparato a conoscerne la fisiologia, a narrarne storie, a imitarne le movenze…
Eppure tra le innumerevoli specie di ragni (800 varianti solo di tarantula) ve ne sono alcune che possono suggerirci qualcosa di davvero importante.
Ovvero dell’importanza della memoria.
Mettere insieme tarantola e memoria, nel Salento, è diventato un accostamento fin troppo facile, per questo vi racconterò di un parente della taranta, un cugino: il Portia labiata, appartenente alla famiglia dei così detti ragni saltatori (il nome del ragno sembra richiamare il personaggio di Shakespeare nel Mercante di Venezia. Porzia, con la z, è l’eroina che si traveste da avvocato e, grazie alla sua astuzia, riesce a superare le argomentazione di Shylock).
Di questo ragno ci interessano alcune caratteristiche. In primis la sua dieta: il Portia si ciba esclusivamente di altri ragni che cattura con una tecnica meravigliosa.
Portia modifica il proprio comportamento adattandolo alle caratteristiche della specie predata. Portia è una sorta di imitatore, camuffatore, attore. Un po’ come i ballerini tarantati dei palchi nostrani. Imitano un ritmo, una frenesia, un’andatura, per ingannare la propria preda.
Ultimamente molti di essi, i ballerini/ballerine, imitano qualcos’altro, eppure, l’inganno, rimane tutto. La preda è il turista ignaro, che va confuso, turlupinato.
La caratteristica più interessante di Portia è, però, la sua “intelligenza”. Un cervello pazzesco in un corpo piccolissimo (è grande quanto l’unghia di un mignolo)!
Portia è in grado di scrutare attentamente gli intrichi della vegetazione e la distanza che lo separa dalla sua vittima designata, riuscendo a calcolare la traiettoria migliore per il suo attacco.
Rimane fermo anche per più di un’ora e, una volta elaborata una mappa mentale, piomba come un ninja senza praticamente mai sbagliare un colpo. Se capisce di aver sbagliato qualcosa fa un fulmineo dietrofront, aiutato da un filo che usa come cavo di sicurezza.
Un comportamento molto simile agli umani che, costantemente, devono fare i conti con una valanga di informazioni che arrivano dai sensi e che dispongono in mappe mentali, mappe di senso per orientarsi nelle intricate jungle dell’esistenza.
Il tutto viene preservato dalla memoria.
La memoria, definita com la capacità di serbare informazioni a uso futuro è uno dei fondamenti della vita stessa.
La memoria, pertanto, è una delle capacità che più ci stanno a cuore: su di essa basiamo la nostra identità e la nostra cultura.
Ed alla memoria del nostro sistema immunitario confidiamo in questi mesi pandemici. Siamo composti interamente da cellule che replicano in ogni istante schemi, mappe, già esistenti nell’Archeano (pressapoco 4 miliardi di anni fa). Gran parte della memoria del mondo continua ad essere totalmente inconscia e non richiede alcun cervello.
Anche le piante fanno così, proprio come l’uomo e gli altri animali.
Il nostro orrore per la perdita, il degrado, della memoria è secondo, forse, solo alla morte.
Eppure, provate a pensare, a quanto terribile potrebbe essere l’esatto opposto: il ricordare troppo.
In un racconto di Borges, un giovane cade da cavallo e, il trauma, provoca l’esatto opposto della perdita di memoria, Ireneo Funes ricorda troppo, tutto.
La sua vita diventa praticamente invivibile. Non riesce a fare nulla, schiacciato dal peso di ricordi troppo dettagliati (ricorda le forme delle nuvole di un pomeriggio di un giorno preciso…).
Troppa memoria, insomma, può essere terribile quanto perderla.
Forse la sanità mentale, ci ricorda Nietzsche, sta nel dimenticare un po’.
“Beati quelli che dimenticano, perché la faranno finita anche con le loro stupidaggini”, disse nel 1886.
David Hume, oltre trecento anni fa, aveva intuito ciò che i neuroscienziati hanno scoperto solo recentemente e, cioè, che il ricordo è un atto di ri- creazione, i veri ricordi diventano storie e le storie diventano ricordi.
Viviamo costantemente tra tensioni eterne: da una parte la voglia di vivere il presente, cogliere l’attimo, dall’altra cerchiamo nel passato il senso di un presente che ci appare, altrimenti, caotico.
La sanità mentale è un sottile equilibrio, come per Portia, come per la taranta. Un filo delicatissimo tra presente e passato. Tra ricordare troppo o troppo poco.
Le miriadi di eventi che, nel Salento, per secoli hanno celebrato la Taranta avevano questo scopo specifico.
Da una parte il trauma. Il dolore cosmico che produce il tarantato. Un ricordo insopportabile che genera malessere, ma che non può essere ricordato sempre. Per cui, ciclicamente, annualmente, la riutilizzazione del dolore ha permesso alla memoria di rimanere fardello che non uccide. Il tarantato, va in pellegrinaggio, cerca la grazia. La grazia di poter convivere con il dolore.
Anni fa, quando mi raccontarono di una tarantata, mi accennarono al “male” che aveva colto questa donna: la perdita di un figlio giovanissimo, morto durante una gara di arrampicata su un palo infilzato sul bordo di un pozzo nero. Il bambino scomparve, letteralmente, inghiottito dalla merda. La madre diventò una tarantata. Ed ogni anno, nella chiesetta di San Paolo a Galatina, riviveva la perdita. Una perdita straziante che portava la donna ad imitare il suo strazio. Come il ragno Portia, la donna cercava di imbrogliare il suo nemico peggiore: il ricordo che devasta.
Quando, negli ultimi anni, si è deciso di spettacolarizzare il tarantismo, non si è voluto fare i conti con molti degli aspetti di cui sopra.
Si è deciso di rompere l’equilibrio dei ricordi che si possono ricordare e dei ricordi che si devono dimenticare.
Si è deciso che l’attimo, il presente di un mercato che chiede show, adrenalina, esibizione, valesse più della memoria del passato. Con il tempo si è dimenticato molto. Si è cambiato il passato, piegandolo a storie utili ad un presente fatto di palchi megagalattici e dirette televisive.
Si sono costruite mappe fallaci, fallaci perché prive di elementi reali, ma frutto di supposte farneticazioni, dati errati, ricordi ri- creati ad arte.
Siamo come Portia in un jungla, solo che abbiamo la mappa sbagliata per muoverci.
Questa è la grave colpa di chi ha portato a degenerare il tarantismo in fenomeno da baraccone: aver alterato la natura.
Danziamo la danza sbagliata, evochiamo suoni errati, proponiamo una rielaborazione non più frutto di una memoria collettiva e ai nostri giovani, ai turisti, proponiamo una frattura pericolosissima.
Dove il presente si mangia il passato.
Dove la preda diventa predatore.
Dove la memoria non è più quel filo ancorato saldamente che ci può salvare. Reciso quel filo, non ci rimane che sperare, che alla fine del baratro ci sia qualcos’altro a salvarci.
Quel qualcos’altro, io, non so descrivervi.
Siamo in piena caduta e stiamo perdendo i ricordi che ci potrebbero aiutare.
L’edizione di quest’anno della Notte della Taranta è l’emblema di quanto vi ho testé raccontato.
Il presente è il dolore: pandemia, perdita, morte, incertezza.
La confezione esalta l’attimo ma non offre appigli.
Nessun rito che aiuti ad elaborare il dolore. Solo un eterno presente plastificato, uno specchio che ci restituisce l’orrore che vorremo seppellire. Dimenticare.