Il tempo non n’tosta invano. Racconto breve semiserio di terra e altre cose.
Ho conosciuto la campagna quando ero molto piccolo.
“Li marangi”, così chiamava il suo appezzamento di terreno mio nonno Peo in contrada San Foca.
Lo vedevo sempre lì. Piegato sulla schiena. Passavano le stagioni, ma lui era lì, scalzo, sempre.
Il suo piede greco, con il terzo dito accavallato sul secondo, era sempre dello stesso colore della terra bagnata.
Un giorno mi tolse i buffi zoccoli di legno del dottor Schultz, comprati (come ogni anno) da mia madre alla farma sanitaria del paese e mi disse:
– cammina scalzo! ca te n’tostanu li piedi!
Capii allora che la terra andava camminata e per camminarla bisognava avere i piedi duri, tuesti.
Presi confidenza quindi con le spine delle erbe infestanti, li rizzieddrhi, come li chiamava il nonno, ausa piedi.
Se non vi siete mai trafitti con una di quelle palline malefiche non potrete mai realmente dire di conoscere la terra!
Mi sembrava un eroe quell’ometto chino su se stesso con il baffetto buffo che per ore arava la terra scalzo.
– ma come fai nonno?
– ricorda: tutti arano. Nessuno sa veramente arare.
Non capii il senso di quelle parole fino a quando non mi ritrovai, molti anni dopo, con la sua motozappa tra le mani.
Quella che una volta mi sembrava una enorme macchina magica che in un attimo rendeva il terreno soffice come la spuma, sgombro di rizzieddrhi ed erbe, mi apparve per quello che era: un infame congegno di tortura.
Da allora ho arato chilometri di terra. Sono certo di non aver ancora imparato ad arare. Diciamo che mi faccio trascinare cercando di scompormi il meno possibile nel disperato tentativo di imitare le gesta e le imprese di nonno Peo.
Da quando il nonno se ne è andato non ho più provato la stessa sensazione nel trattenere la terra tra le dita dei piedi.
La terra che fu di mio nonno è stata divisa tra i suoi tre figli.
Il più piccolo non ha mai dimostrato un interesse, uno slancio, una propensione verso quella terra. Solo quando guardo nella direzione del suo appezzamento mi ricordo che il nonno non c’è più.
Il secondo, Zio Pietro, si dedica con tutte le sue forze e coltiva di tutto.
Lui, ex operaio dell’Ilva, pensionato con onore e reduce di uno dei più grandi disastri della storia passata, presente e futura di questa misera Italia. Dagli altiforni tarantini al sole cocente delli marangi. Non teme la fatica.
E’ l’unico che intrepido mette ancora in moto la motozappa del nonno. Ogni tanto, di nascosto, quando lui non c’è, passeggio in quella terra perfettamente sgranata, facendo attenzione a ricoprire le impronte dopo il mio passaggio. Mio zio è molto orgoglioso della sua terra e non ama vederla consumare.
Si lamenta spesso che oramai quella terra si stia lentamente impoverendo.
Succede anche questo.
La terra deve poter riposare, come le persone danno il meglio quando sono rifocillate.
Mio padre, l’intellettuale o, meglio, il poeta, come lo chiamano qui a Melendugno, ha costruito il suo sogno.
Un rifugio dal caos cittadino. Un luogo dove poter studiare, scrivere, pensare libero dai molestatori di professione.
La sua terra è la sua vita, letteralmente, sradicarlo da lì significherebbe ucciderlo.
Anche ora che combatte una grave malattia e i medici, parenti, amici e affini, gli consigliano un ricovero più cittadino, lui fa spallucce e manda a quel paese tutti ripetendo la frase che fu di mio nonno:
– quando muoio seppellitemi con tutta la campagna!
O detta in dialetto:
– nienzi pe’ mie nienzi per ceddrhi.
Niente per me, niente per nessuno.
Mio nonno è stato seppellito nella nuda terra, di fianco a Rina Durante, scrittrice, grande amica di famiglia.
Anche Rina amava quel posto.
Quando doveva lavorare a qualche nuovo romanzo abbandonava la città. Affittava una casa nei pressi della nostra e scriveva per interi mesi.
Conservo ancora nel portafogli un bigliettino che lasciò attaccato al cancello di casa un volta che passando non ci trovò. Mi capita spesso di rileggerlo:
E’ ora di pranzo, lo so
ma per favore non cercatemi.
Dove sono? che vi posso rispondere?
Nel bosco di seta e di piccoli fauni.
Sono lo spiritello che danza tra le felci,
i funghetti tralalà
oppure se guardate bene
sono l’aquilone che guizza verso il cielo
libero
e che manda messaggi all’azzurro per tutti i bambini
incatenati ad un banco di scuola;
ma potrei essere il delfino che nuota allegramente nell’acqua
limpida, tenero, innocente
burlone
vulnerabile
immortale.
Sono ovunque mi spinga l’estro in una giornata come questa
dono degli dei
privilegio di una pensionata che ha rotto definitivamente le acque…
a stasera comunque
il menù prevede funghi fritti
Vostra Rina
Nelle pause di lavoro passava da noi ed allora iniziava lo spettacolo.
Non di rado mi capitava di assistere a battaglie epiche.
Mio nonno, Rina Durante, papà e, a turno, le più straordinarie menti della cultura salentina e italiana. Vittorio Pagano, Nanni Balestrini, Sergio Spina, Eugenio Barba, Giovanna Marini, Giorgio Pressburgher e molti altri erano di casa alli marangi.
I miei ricordi si accavallano e mi si squaglia il cuore se penso a quegli anni.
I litigi sul vino fatto male (secondo papà) del nonno. I racconti epici di Rina. Le battute di pesca (sempre disastrose). Le lotte con i pomodori e gli schizzi bollenti della salsa. Le dita nella terra durante la raccolte delle olive. I “pizzini” con i versi e le sfide poetiche tra Balestrini, Pagano, mio padre e Rina. Tovaglie strappate zeppe di giochi poetici in rime alternate, concatenate, mai banali. Le notti con le chitarre stonate e le barzellette del dott. Murciano. I tamburelli e le canzoni politiche urlate, inventate, smontate quando ancora il Salento era la terra che nessuno voleva. Le discussioni sul nuovo spettacolo dell’Odin. Le riflessioni sulle ultime scoperte del Prof. Pagliara a Roca. Le litigate intorno ad una sceneggiatura, le correzioni delle bozze dell’ultimo romanzo. Le risate al suono delle cicale, al lume di lucciole.
Entrare alli marangi era come entrare nel Paese delle Meraviglie.
Ed è stato forse per questo che quando nacque mia figlia non ebbi dubbi nella scelta del nome: Alice.
Nel frattempo il nonno si spense in una notte di Settembre. Appena il tempo di farmi gli auguri per il mio 23 esimo compleanno. Qualche giorno prima salutò la vita Carmelo Bene (qualora fosse mai esistito!). Pochi mesi dopo ci lasciò anche Rina. E così accadde ad altri che avevano animato i sogni della mia infanzia.
Quando anche papà incominciò a star male il Paese delle meraviglie rimase solo intorno a mia figlia.
Dopo l’ennesimo ricovero di papà capii cosa c’era da fare.
Andai in campagna, alli marangi, tolsi le scarpe e misi i piedi nella terra.
Era dura, arida, increspata, piena di sassi appuntiti e i miei piedi non erano più tosti.
Misi in moto la motozappa e cominciai dal primo solco.
Giunsi al lembo opposto della campagna, lì dove non mettevo piede da 25 anni, vidi mio nonno seduto, rideva dietro al suo baffetto. Mi stava aspettando. Io spensi la motozappa e sentii la sua voce:
– ce ne hai messo di tempo per n’tostare!?