Testimonianza sul filo dei ricordi
Un attimo di sbandamento. Una specie di vuoto allo stomaco quando i giovani, e fra questi mio figlio, che tengono attivo l’Oistros (www.oistros.it) mi hanno chiesto di mettere a disposizione il materiale per raccontare ai loro coetanei l’influenza che ha avuto l’Odin Teatret sulle trasformazioni culturali del Salento. L’occasione? No, le occasioni: Il mezzo secolo dell’Odin (1964 – 2014), il quarantennale dell’esperienza di Carpignano (1974 – 2014), il decennale della morte di Rina Durante (2004 – 2014)
Certo, non poteva che farmi enorme piacere che un gruppo di giovani avesse deciso di dedicare un omaggio ad un uomo straordinario come Barba e ad un gruppo teatrale che aveva influenzato molto profondamente il nostro territorio e le scelte dello stesso gruppo Oistros. Quale, allora, la natura di questo sbandamento? Il riemergere, prima di tutto, in una luce abbagliante dei volti di chi non è più con noi. L’esplodere delle loro voci, gli odori di una stagione sommersa nello stagno della memoria. Ora che la via percorsa è molto più lunga di quella che, presumiamo, ci resti da percorrere, lo struggimento che gorgoglia nei vuoti lasciati da Marisa Turano e Franco Corallo, da Tony D’Urso e Torgheir Weithal, da Fabrizio Cruciani e Sandro D’Amico, Claudio Meldolesi e Rina Durante, da Toto De Rinaldis a Teti, alla signora Rosa e alla nonna Vita, a Georges Lapassade, a Diego Carpitella a Vittorio Pagano, a Carmelo Bene, agli Ucci di Cutrofiano (…e il cimitero si estende sino a una piega dell’orizzonte), è quasi una nenia di carrettieri che si affaccia sui balconi dei tramonti. Nomi di persone che hanno forato il muro compatto dell’anonimato, ma anche nomi di persone che avranno solamente una lapide a ricordarle in cimiteri di silenzio.
E poi la crudele necessità di rimestare nel groviglio dei fallimenti: personali, di gruppo, di generazione, di popoli.
Non è facile accettare un bilancio così catastrofico, anche perché è un bilancio falso; o, meglio, sono io che forse esibendo un falso in bilancio cerco di attizzare qualche fiammella di compatimento o di recuperare qualche briciola di ottimismo. Insomma, a differenza di quello che fa Giuliano Capani nel suo intervento, il mio sguardo oggi riesce a zoomare solo sulle zone scure e, a parziale consolazione, mi sembra molto più utile in questa fase rileggere in modo critico il percorso dell’Oistros, anche in quella parte in cui quel percorso ha incrociato quello dell’Odin, che indulgere in un consolatorio “avevamo tutte le ragioni per poter vincere”.
Il primo peccato
E’ un peccato di presunzione dovuto, probabilmente, a cattive frequentazioni. La più fitta, quella con la compaesana Rina Durante che mi scarrozzava in Lambretta e poi in auto alle riunioni in casa di Girolamo Comi e alle cene movimentate con Pagano. L’arrivo all’Università di Lecce di Sandro D’Amico e di tanti altri docenti di grande spessore culturale e umano: da Umberto Cerroni a Vanna Gentili a Michele Rago…mi convinse che attraverso le iniziative culturali era possibile liberare il Salento da ogni forma di arretratezza e aprire un territorio incatenato al latifondismo e dissanguato dall’emigrazione a esperienze di respiro internazionale.
Nella fondazione del Gruppo Universitario Teatrale il mio peccato di presunzione credo abbia avuto un peso non secondario. Non solo volevo giustiziare il teatro che si faceva nei teatri – e quello che arrivava sui palcoscenici dei teatri di Lecce,“Apollo” e “Politeama”, non era proprio il meglio della prosa o il meglio della lirica[1] – ma pretendevo di trasformare l’attività teatrale se non in una ruspa, almeno in un martello pneumatico con cui scardinare le fondamenta delle strutture del potere responsabile del sottosviluppo della mia terra.
In realtà la delusione per la proposta di Giorgio Pressburger , arruolato da D’Amico, di lavorare sulla novella di Franz Kafka, Una relazione accademica, svanì quando io e tutti gli altri componenti del GUT ci rendemmo conto che quel lavoro, durato due anni e tradotto in due sole repliche, una al Centro Polivalente Salesiani e un’altra nell’Anfiteatro Romano per la Rassegna degli spettacoli estivi, si configurava come un difficile e complicato percorso nella preistoria del rapporto col nostro territorio.[2]
La scelta successiva di utilizzare il teatro come grimaldello per forzare i luoghi di esclusione (scuola, ospedale psichiatrico, Centro AIAS di Cutrofiano, Convento di Santa Maria degli Angeli, carcere) ci rafforzò nell’idea che l’attività teatrale, a differenza del lavoro politico promosso anche dai partiti della sinistra, permetteva di aggirare la fase della preclusione ideologica e quindi di poter agire in luoghi vietati a chi si presentava con etichette di partito. E gl’incontri e le collaborazioni con personaggi come Carlo Quartucci, Giuliano Scabia, Giuseppe Ricci, Giovanna Marini ci avevano confermato che eravamo sulla strada giusta.[3]
L’incontro con l’Odin Teatret fu una specie di pugnalata alla schiena, inferta, però, dall’interno, da dentro le visceri verso l’esterno. Lo spettacolo Min Fars Hus (La casa del padre), dopo il terremoto con epicentro la replica veneziana, si trasformò in uno sciame sismico che non si placò nemmeno col mio ritorno a Lecce. Non fu facile convincere i compagni del GUT che occorreva ritornare a frequentare il mondo del teatro, di un teatro però che cercava il senso del fare teatro nel groviglio inestricabile delle peculiarità dell’antropos. Senza l’aiuto di Ferdinando Taviani, che nel frattempo era arrivato a Lecce per ricoprire la II cattedra di Storia del Teatro, non credo sarei riuscito a convincere Giuliano, Cristina, Vanna e tutti gli altri che il teatro dell’Odin era molto più vicino alle radici della cultura contadina della nostra terra di quanto lo fossero le farse del teatro in dialetto. Di più: quel teatro poteva essere forse un modo di fare politica ancora più radicale e profondo di quanto avremmo potuto fare con i nostri interventi di animazione teatrale. Lo spettacolo Min Fars Hus a Lecce esibì tutto il suo potere metamorfico: si fece leggere dallo studente, dal medico, dalla casalinga offrendo ad ognuno una immagine diversa. Funzionava da specchio, in realtà. Ma fu la lettura di mio padre interamente proiettata sul rituale della terapia domiciliare del tarantismo che mi costrinse ad indossare un mantello di domande inquietanti.[4] Provammo, durante il seminario, a rovesciare sull’Odin tutti i problemi in cui ci sentivamo intrappolati. Forse inconsciamente speravamo che anche loro si perdessero nei labirinti di parole dove noi salentini giocavano a mosca cieca. “Come mosche nei freddi dell’autunno si lasciano morire dietro i vetri” bisbigliava il poeta. Eugenio e Iben e Torgheir e tutti gli altri ricambiarono con un pesante pacco di silenzio che nascondeva una grande voglia di fare.
[1] Cfr. l’articolo di F. Taviani, Per un teatro radicato.
[2] Cfr., Il teatro fuori dai teatri.
[3] La collaborazione col Centro AIAS di Cutrofiano (LE) si è prolungata fino alla fine degli anni Ottanta, quando il servizio socio riabilitativo divenne pubblico e gestito dalle ASL. Da allora, paradossalmente, si è verificato un processo inverso a quello realizzato a Cutrofiano: noi trasformammo gli ambulatori in laboratori, la gestione separata e medicale dell’handicap in una gestione socio culturale, l’insegnamento pseudo specialistico delle scuole speciali nella didattica attiva delle scuole normali, il servizio centralizzato in una presenza diffusa sull’intero territorio; oggi ritorna la visione privatistica, l’ambulatorio, la medicalizzazione della disabilità…
[4] Cfr., Min Fars Hus delle tarante.