70 Anni – Resistenza

Sergio Spina sulla Resistenza (intervista di Roberto Savoca, 2015)


Partigiano Salento. Presente!
film-documentario di Sergio Spina, 2014


Alla vigilia della ricorrenza del 25 aprile se osserviamo l’osceno balletto delle candidature al governo regionale sul corpo spossato della Puglia fa venire i brividi. Non c’è quasi più nulla da scarnificare, eppure vecchi sciacalli e nuovi corvi sgomitano per trovare un posticino nelle decine di liste elettorali. Non hanno nessuna idea di cosa possono fare per questa terra, capiscono soltanto che cosa possono fare per le loro tasche.
Ripenso i versi di Carmelo Bene:

Terra di Puglia
Ulivi in preghiera
Fra tanto pensoso
Dolorare di verde

Forse pregano le seghe elettriche che li vogliono decapitare o le ruspe che li vogliono sradicare. La loro morte è cominciata molto tempo fa: quando è partito il processo di mercificazione del territorio. Aveva senso e diritto di sopravvivere solo quanto poteva trasformarsi in denaro: il mare, le coste, le persone, le feste, le pietre…perfino i lamenti sonori delle tarantate. Gli ulivi sono stati soffocati dai diserbanti mentre sognavano le carezze degli aratri.
Le cose buone di questa terra si sono appoggiate ai pochi muretti a secco della poesia e piangono con flebili lamenti.

“… quello che abbiamo dentro
si vede: il bello eterno dei notabili,
per iniziarci all’obbedienza,
il disfarsi delle maschere libertarie,
le ambigue sentenze, l’inafferrabile
gorgo del nuovo potere.”

Così commentava Vittore Fiore il degrado della politica meridionale. Ma c’è un testo in cui il poeta nato a Gallipoli nel 1920 e morto a Capurso nel 1999 ricorda luoghi e persone della Puglia buona.
Ve lo riproponiamo in occasione del 25 aprile sapendo di fare cosa molto sgradita ai tanti mestatori della politica e cosa gradita ai non tantissimi che coltivano ancora pensieri critici che non hanno prezzo.

Gino Santoro

Ci sono ancora due ore di treno,
se la faccia del cielo lo consente,
da Lecce a Bari, per pensare,
per decidere provvisoriamente
come schivare 1’agguato:
è lì, nella memoria, come ieri
eravamo, nel mito remoto
che striscia da secoli inesplorati,
nella nostalgia di anni felici, assurdi,
che non si cancella, nelle meste delusioni,
come crediamo ci abbiano dato luce
i vapori dell‘infanzia;

Ci sono ancora due ore di treno
per ricordare,
gli omaggi collettivi, i servili sorrisi
– docce di poesie scesero sulle autorità-
Marziano, poeta partigiano,
venuto da Parma, incastrato
nell’oscuro giuoco locale
dei notabili, nell‘inquietudine
che non può scoppiare
dei giovani di Parabita,
nella Classe, con la quale almeno
da mille anni intratteniamo
ottimi rapporti letterari.

Mi hai colto in un momento
di confronti col passato,
ti potessi raffreddare
così calda Galàtone,
dove parleranno per sempre Nicola Pierri
e la borsa antifascista
del postino Sartori.
Per chi, con carattere provvisorio,
scrive, al pari di me, la propria storia,
può anche tornare una fiat nera
a prelevarmi dal confino
per depositarmi nel sangue di Galàtone,
di Copertino; almeno una cosa è certa:
solida e cosciente,
come la ricordano gli storici minori,
la casa sulla ferrovia
ingoiava speranze, paure,
quei tremendi libri clandestini
che non ci fecero sbagliare.

S‘alzano sulle antiche cantine insegne
in lingua straniera,
andiamo a chiedere
perdono a S.Giuseppe da Copertino,
noi, intellettuali razionali e ironici,
così vero e popolare,
ci proteggevi da mezz‘altezza nelle osterie.

Nicola, non c’è più l’enologo,
libero pensatore,
dobbiamo accertarci
se può accoglierci la distilleria,
fino a notte,
se la polizia dubita delle nostre risa,
delle nostre sgangherate divise.

Noi non potevamo vivere
nel nostro sole nero di Neviano,
nei dialetti della Grecìa,
non potevamo cavalcare
la giumenta del maggiore
sotto gli occhi ironici del caporale
Limongelli da Milano,
frammenti incandescenti di chiese
barocche, muoverci fra la civile
religione del Galateo e quella di Benedetto Croce.

Eppure il vostro possibile divenire,
paesi che vi date la mano toccandovi
in ogni stagione,
stava in quegli arresti in massa
di giovani ufficiali e soldati
che nel fondo della vostra geometria,
della vostra intricata miseria,
cercavano le ragioni della sconfitta democratica,
il calore ritinto del potere centrale,
della ragnatela giolittiana e fascista.

Al fondo di una di queste desolazioni
noi chiamammo europei quel cielo fermo,
la linea bassa dell’orizzonte,
il profilo di ulivi e case bianche
che si attaccavano alla luce,
le ceneri rivoluzionarie di Carlo Mauro
e il fantasma liberista
del marchese De Viti De Marco:
Non abbellimmo di virtù,
il passato, ma affondammo
il bisturi nella nostra terra dolente.
Prima di noi, poeti
usavano parole alate,
gonfie di tradizioni profetiche
che non si sono avverate.

Dentro le dure vene campagnole
del giovane sangue democratico
gira e rigira sulla nuova Puglia
il capitalista collettivo,
Dopo aver scritto centomila
parole, a Lecce, coronati
di mirto, attendiamo la rivoluzione.
Riforniamoci di generi alimentari,
nell’aria c’è il colpo di stato.

Prestami qualche giorno per tornare,
degrada il fumosterno, a Galatina,
sotto le Anime, mentre sabbiosa
si sgrana e turchina l’argilla.
Nell‘ombellico della Japigia
numeriamo pure i fuochi,
ma riprendiamo i lunghi flagelli
se distruggete il bianco delle case,
mentre nella voragine si perde
il canale Gentiluomo.

Pisano e Pisanello
distrutti fur dai Mori
sotto l‘altar maggiore
si trovano i tesori

Tu, solo, non devi, con la tua improvvisa presenza,
ricordare il tempo orgoglioso
della scoperta dei sentimenti, a Leuca,
a Castro, dove si tagliavano a fette
le parole contro i seni azzurri
delle grotte, senza più fantasmi
ingombranti di pirati, di lingue
preistoriche di cui non volevamo sapere
assolutamente nulla.
Carlo V, non mi lasciare,
Re di Spagna, guardiamo
verso l’alto agli archi di trionfo,
il male, credimi, è dentro di noi:
ce lo manda a dire dalla Sicilia
Leonardo Sciascia, ugualmente
da Roma Filippo Accrocca, poeta
civile del Portonaccio. Si sono
aggrovigliati i nodi, qualcosa
ci ferma, ci impedisce.

Non andare a Mola di Bari, schiva
in tempo l’agguato degli squadristi,
operai, studenti; vicino al mare
gigantesco giace il tuo corpo.
Presto, soccorriamolo, chiamate
un medico e gli amici, vengano
tutti al tuo capezzale di ospedale,
prima dell’alba:
Piero Delfino Pesce, Di Vittorio,
Raffaele Pastore e Paolo Tria,
Santoiemma, Giuseppe Papalia

e con loro Violante e tanti altri,
contadini, pescatori, operai,
dirigenti della Camera del Lavoro:
Di Vagno sta lottando con la morte,
vi riconosce, pallido e sereno,
vi saluta con lo sguardo dolce,
sorride lievemente,
l’ha scritto
Di Vittorio su Puglia Rossa
il 2 Ottobre 1921
sei girondolò la tua morte.

Guarda se sta arrivando Di Vittorio,
filosofo proletario, senti
se a Cerignola s’ode la sua voce
(è bello se siete uniti):
se ci sono giovani a Piazza Catùma,
se sta spiegando pianamente
come si passa, nell’instancabile
lotta e nel pensiero, dall’anarchia
al socialismo scientifico, perchè
i braccianti piccoli proprietari
non possono far parte della rozza
cavalleria di Caradonna.

Chiedi se ancora una volta
a Molfetta e a Bitonto può tornare
la barba pungente di Ernesto Rossi
a risentire Salvemini
tuonare, con precisione estrema,
contro gli ascari giolittiani.
Chiedete al mazziniano Pantaleo
quando i contadini una mattina
e gli edili nel novecentoventi
corrosero l’istituto della monarchia
proclamando la Repubblica di Nardò.
Notizie di Carlo Mauro? Divide
ceci nel collettivo di cultura,
fave a Galatina, in un casolare
di periferia, discutono
lo sciopero di domani, la sorte
che ha aperto un’impari lotta
che nessuno, in quei loro asciutti
stupori di scoprire che vuol dire
trovarsi nell’unità,
considerava impossibile, assurda.

Tenete salda la bandiera
autonoma della critica:
quel tempo che sembrava alla fine,
tra speranza e dolore, non è stato
scoperto dagli intellettuali, usato
nella cronaca di ogni giorno
per tornare all’irrazionale
disperazione di stampo borghese.
L’amore, il paesaggio, la storia
dolente dei miti reali
che non possiamo fuggire,
degli obelischi, d’archi di trionfo,
primi scopritori della miseria,
non sono mondi inverosimili,
morena di giorni estenuanti,
d‘impotenti rinunzie, l’erosione
di millenari valori che un posto

trovano nella retorica aulica
della provinciale nazione.

Il contrario della rinuncia sono,
il desiderio disperato, amare,
odiare, recuperare il perduto,
mischiarsi alla vita, con negazioni
precise, disposte agli intendimenti,
per chi ha sbagliato, con aspro e irrrompente
consentimento per chi si ravvisi
nell‘epico scenario, restituendo
un lungo deserto, lungo travaglia.
Dominazioni si uniscono alla vita,
c’impediscono come foreste
di difficoltà di entrare nel mondo
di domani, con taglio netto, come
valori che già sono esistiti,
come paura, terrore di imprigionarli
nei nostri schemi, nei nostri domestici
musei e politici stallaggi.

Il nostro male si vede, per tutte
una volta non è accaduto
che Pacciardi mandasse
l’aviazione a disperdere i braccianti
che occupavano l’Arnèo.
Il paesaggio ci fanno disperati,
la Spagna, il dente delle serre
svuotate dell’emigrazione;
il Principe moderno il ruolo
rifiuta di organizzare la Classe,
di riaprire ogni giorno la partita.

Cade a pezzi a Paràbita il convento,
gli alcantarini attraversano volando
bifore sforacchiate, tutti i santi
sono all’aria aperta
nella chiesa madre, possiamo
prenderli li per li, dalle piccole
case arieggiate non portate via
i portali, i capitelli dai monasteri.
Vittorio Bodini mandava intanto
a dire, da Roma: salutatemi il paesaggio.
Per ragioni che non sono nè oscure
nè ignote, nel ventre del mostro
Taranto divora la sua storia
di mare, di città sepolte, navi,
di lotte operaie. Se mi volto,
non avevamo capito che sotto
piacevoli apparenze simuliamo
il giuoco, il modello matematico,
che il nuovo nemico prescrive
le tecnologie, le regole
di funzionamento. Ma tu la puccia
non gettare, Gallipoli, nel mare,
striata di nero e di grigio.

Non è solo questa la nostra forza,
lo so. Miei compagni, verdi di lotte,
se Guido Dorso torna da Avellino
cantiamo la repubblica dei cafoni,
su noi c’è ancora Ernesto De Martino,
è partito impaziente per la spedizione
nella terra del rimorso e in Lucania.
Ora tocca e voi ripetere il bene
che ha dato al movimento operaio
la lotta meridionalista. I ruoli
grotteschi rifiutiamo nelle umide
storie e letterarie (la delusione
del Risorgimento non ci acquietava):
stato d’assedio, gusto provinciale,
fortuita retorica paesana.

Il dialetto fu poesia nazionale,
etnologia il folklore. Facevamo
i conti in tasca alle confindustrie
europee, più volte nacque
la critica rivoluzionaria,
dove duro era lo scontro di classe,
alle deviazione del movimento operaio,
Riconosciamo volentieri,
scriveva Federico Engels,
che al tempo dove qui, in Londra,
si realizzava una prima volta
una lega internazionale
degli operai, voi, nella remota
Puglia avete rilevato
quella medesima idea.

Giuriamo, troviamoci a Castel del Monte,
siamo cento più cento. Apriamo la cassa delle armi.
Siamo rimasti in sei, dichiariamo
guerra all’esercito italiano. Battiamo
la campagna, trasciniamo con noi i contadini.
Anche se non ci seguono, otto carabinieri
ci credono mille, sparano contro i nostri fucili
ad avancarico, l’undici di agosto,
del milleottocentosettantaquattro.
Alto e slanciato, Cafiero, compagno infelice,
da tutta la tua follia, la galere, le fughe
la rivoluzione del Mezzogiorno
assurdamente mori di socialismo.

Cosa hai fatto Antonio Lucarelli
a insegnarci cos’era il brigantaggio,
a rendere al presente, contro i testi
ufficiali, chiaro il passato.
Come ironico profeta disarmato
da non so quanti anni di confino
è giunto il treno da Bisceglie: scende
esile il sorriso dell’ingegnere Calace.
Ripeto le tue parole senza fine
contro il servile vaniloquio.

Ma noi alla prima svolta incontreremo
Gabriele Pepe. Dorme sulla collina,
a Roma, ma era stato, a Bari,
l’umile compagno di base, il male
ti minava e tu parlavi di Ludovico,
padre tuo, storico, maestro,
della Spagna, del pane, della lotta,
nel Mezzogiorno, per la terra,
del Medio Evo vicino e lontano.

S’avvicina in silenzio la pianura
ed ecco, anche io passerò,
come sono passati i nostri padri,
attraversando strade, amici,
critiche pungenti di cui sempre
avrò tristezza e voglia.
Non confondiamo piccole storie
private, per quanto genuine,
col destino universale
della nostra terra.
Illusione pensare che un uomo,
a certe condizioni,
possa spezzare le infinite
catene incancrenite,

Ed ecco, anche Ostuni passava
nello splendore della luce
sospesa fra mare e cielo
e intanto, umida e ventriloqua,
per ebbrezza di parole,
Bari s’inginocchiava
sul filo del mare torbido. Fra poco,
nel rumore assordante delle auto,
sentirò intristire i nostri figli,
la classe operaia. L’onda verde
mi porterà fino alla casa di mio padre
nell’angolo cosciente di una stanza
piena di libri, di memorie, di voci,
della sorte di Graziano diciottenne e forte
nel ritratto ad olio sopra il tuo letto.
E tu farai cadere le tue parole
dalle mani della tua Puglia
senza miti, l’archeologica
espressione d’altri tempi,
come scrivevi a Gobetti. Emergono
le tue formiche, premono dal basso
i contadini di Altamura, i braccianti
del Tavoliere. Ti sei alzato,
indichi lo scaffale che da un mondo
lontano di professorino
ti sei portato sulla soglia della morte.

Puoi frugare nei libri, fra le carte,
mi dici. Nitida riaffiora
la scrittura di Auguste Monti e Carlo
Rosselli, di Giustino Fortunato
dalle reti della morte. Scusami
se sono maldestro se ho messo
disordine fra i tuoi criceti,
i tuoi uccelli, i tuoi fiori
sempre verdi e rossi. Ci sono
i tuoi amici, che attraversarono
la nostra vita, Leone Ginsburg,
Cesere Pavese. Sotto l‘anno
novecentoventicinque un beffardo
avvocato di Avellino quando
passava con te per la piana
caldissima di Foggia
dagli oscuri frammenti
dell‘angustia paesana, dalle
rovine del vecchio Stato oppressore
sorgeva la rivoluzione meridionale.
Non puoi separarti da loro.
Accorrono i vivi e i morti.
C’erano compagni con te
e lì dentro si radunavano,
ponevano domande, e giovani,
su ciò che oggi è vile e ristagna,
proprio di fronte alla voce
di Benedetto Croce che a Villa Laterza
dopo una notte insonne
respinse le tue tesi liberalsocialiste.

Ti guardo andare verso la sezione
appioppare l‘Avanti ai borghesi,
con un garofano rosso all’occhiello,
correre dalle pietre delle Murge
sotto un’aria che si gonfia
verso il grande spazio di Gallipoli
e a Lecce fermarti nei palazzi
baronali, nelle botteghe artigiane,
il respirare, a Molfetta, nel circolo
clandestino degli amici di Salvemini.
Tutte cose così lontane, antiche,
ma le tua storia non è un sogno
che marcisce, si ricompone,
porta il tuo ricordo indietro, e poi
ci ravvicina ai volti, agli occhi aguzzi
di oggi che t’interrogano,
fino ai tempi dell’incendio
al Municipio di Altamura,
delle divisioni all’interno della Classe,
della violenza degli agrari,
genitrici del fascismo.

Più volte vedevo battere il cuore
più forte di Cesare Teofilato.
Fascisti, appiccate iI fuoco
alla casa dell’anarchico a Francavilla
Fontana; ti sollevo il fucile,

vi hai messo la mano a indietreggiarli.
Ero ragazzo, m’adducesti, padre,
la storia del maestro elementare
povero, da una capra sulla casa
terragna acre odore di lette‘
si sostentava, per dieci parole
bugiarde non sottoscritte.
Dalla sua larga cravatta alla Bovio,
dal suo idolo spento sul rogo di Tolosa
viene ancora il profumo di Vanini.
Dalle megalitiche specchie
e le muraglie, dalle pietre ciclopiche
afferri i gambali della regina
Giovanna, dei soldati piemontesi.
Bevi coi tuoi neolitici ai cisternali,

coi tuoi eroi del Risorgimento,
poveri scritturali d’Intendenza,
filosofi, maestri elementari,
giudici coraggiosi, eloquenti
senza retorica, non tradirono
se stessi né gli altri, essi continuano
ad alzarsi — volete saperlo? —
sul tronco insonne del tuo cuore;
lasciate passare il riverbero
dell’amico di mio padre, anarchico
evangelico poeta, del maestro
dei poveri Cesare Teofilato.

Come tu peni e lotti, padre mio,
puoi chiamarci, e dietro di noi
altre migliaia, sembrano lontani.
E allora? Dici che sei alla fine?
Tommaso Fiore guarda in faccia alla morte.

La Puglia oggi è triste,
Arrivederci, arrìvederci.

Vittore Fiore