Teatro e disagio. Di L.A. Santoro
Di Luigi A. Santoro
Il teatro ha privilegiato le zone del disagio fin dalle sue lontane origini. In questa scelta c’è una ragione profonda: contrastare l’azione di marginalizzazione del disagio (malati, eretici, criminali, stranieri, bambini, vecchi, pazzi) che tutte le società, in misura e forme diverse, mettono in opera per svilupparsi o, almeno, conservarsi. Se il teatro rinuncia a quest’opera di contrasto, se si adagia in uno spazio istituzionalizzato, se ignora le contraddizioni sociali e individuali la sua funzione si svuota. Lo ricordava già Aristotele: l’eroe, il personaggio è un irregolare. Antigone che viola le leggi della Polis; Edipo lo zoppo che viola il tabù dell’incesto; Medea la straniera che tradisce la sua patria e uccide i suoi stessi figli…Tutti i grandi eroi della tragedia greca sono degli irregolari. Irregolari rispetto alle leggi della patria, della famiglia, della tradizione, dei valori religiosi. Ma sono degli irregolari anche Amleto e Faust, Macbeth e Lear, Don Giovanni e Mackie Messer.
Il fatto che oggi – ma ci sono precedenti illustri come gli spettacoli del Marchese De Sade con gl’internati dell’ospedale di Charenton – l’handicap, la reclusione, l’emigrazione, il disagio costituiscano le tematiche più frequentate dai gruppi teatrali dei più giovani non costituisce novità. Semmai costituisce novità il fatto che si costituiscono gruppi teatrali di giovani handicappati fisici e psichici, o d’immigrati, o di reclusi e che le proposte di questi gruppi comincino ad avere una valenza professionale di tutto rispetto e dei risultati che, anche sul piano estetico, non hanno nulla da invidiare a quelli di gruppi ‘normali’.
Nei gruppi più maturi, con alle spalle una forte e articolata riflessione sul rapporto tra normalità e anormalità, il percorso professionale evita accuratamente d’investire sul pietismo e sulla pretesa di situazioni protette e privilegiate, affronta al contrario il discorso della diversità per difenderla da ogni tentativo di omologazione e normalizzazione. In altre parole il teatro che, oltre a farsi conoscere, vuole conoscere, può e deve fare a meno del desiderio di risolvere le contraddizioni della società e dell’individuo, ma deve trasformarsi in ossimoro vivente: accettare la diversità negandola o negare la diversità accettandola. Rischia altrimenti di trasformarsi in una specie di servizio sociale approssimativo e dannoso. Il teatro non può essere un surrogato della didattica e tanto meno del trattamento psicoterapeutico; il teatro può essere solamente l’ombra che indica e svela le ombre che vengono create da ogni trattamento normalizzante, le dita che strizzano il pus dei foruncoli che si producono ai margini del tessuto sociale, nelle pieghe/piaghe che si formano nelle storie degli individui.
In questa opera il teatro è insostituibile perché non si limita a raccontare il disagio, ma richiede che venga vissuto. Prima di tutto da parte dell’attore e in seconda istanza da parte dello spettatore. E vivere e rivivere il disagio significa mettersi in gioco, mettere nel gioco della conoscenza la propria esperienza, i sentimenti, le parole, il corpo, i ricordi, le attese.
In questa prospettiva il gioco del teatro trova come luogo privilegiato il corpo che si organizza in testo e il testo che acquista un corpo. Ma, evidentemente, l’inesauribile metamorfosi del corpo del testo nel testo del corpo o, all’inverso, del testo del corpo che diventa il corpo del testo viene alimentata dalla tensione degli opposti obbligati a convivere nell’ossimoro.
Né il cinema e tanto meno la televisione richiedono la reviviscenza dell’attore e la partecipazione dello spettatore. L’uno e l’altra si fermano sul bordo della visione e della immaginazione. Al massimo possono innescare processi mentali multipli, ma lineari. Mai, o molto raramente, riescono creare la situazione empatica che coinvolge corpi presenti nello stesso spazio. In altre parole solamente il teatro può far vivere e non solamente raccontare il disagio.