CRONACHE DAL FRONTE SANITARIO VII

Di Luigi A. Santoro

Mi viene da ridere mentre l’infermiera procede al famoso clistere di cui avevo detto, però, che non vi avrei raccontato. Mi viene da ridere perché se per ogni intervento chirurgico il clistere è d’obbligo, per ogni intervento politico bisognerebbe procedere allo stesso modo.
L’opinione generalizzata nei confronti dei politici, in questa città nella città che è l’ospedale Vito Fazzi, è che si tratta di una schiera di parassiti che ci dobbiamo sopportare. Mi viene alla mente la considerazione della scimmia de “Una relazione accademica” di F. Kafka; cito a memoria: sapeva che le pulci saltano, che vivono tra i peli e bisogna conviverci. Tuttavia non trovo ragioni plausibili al fatto che i parassiti più famelici e carogne allignino nel settore della sanità.
Coperto da un camice verde trasparente, più pelato di una patata pelata, vengo spinto lungo i corridoi del Fazzi verso l’altare sacrificale da un’infermiera di dimensioni generose che sprizza allegria da tutti i movimenti. Mi segue una processione di amici e parenti che, forse infettati dall’ottimismo frizzante della Fulvia, mi lanciano frasi del tipo: “dai che ti rifanno nuovo!”, “fagli vedere chi sei e quanto vali!”, “pensa a cose belle prima dell’anestesia” e simili amenità.
La scena della sala operatoria è immersa in un ghiaccio polare. Forse è quel freddo che costringe gruppi di sanitari a fare gesti lenti, misurati, alla ricerca di un ordine degli oggetti che poi serviranno ad aprire il mio torace, cercare i pezzi di ricambio e sostituire le parti deteriorate delle coronarie. Mentre l’anestesista mi chiede di poggiare il braccio in modo che possa prendere la vena giusta, mi viene in mente in modo confuso la storia del sacrificio del bue durante una delle feste dell’antica Grecia. All’animale veniva fatto fare un percorso disseminato di mucchietti di fieno. Prima di ognuno di questi il sacerdote chiedeva ad alta voce se l’animale era contento di essere sacrificato al dio e così il bue, che abbassava la testa per mangiare, sembrava non solo assentire, ma anche condividere il proprio sacrificio. Penso che in questo caso la collaborazione con chi deve cancellare il trauma dell’intervento possa facilitare quel miracolo della morte e del tornare in vita che avverrà intorno a quel tavolo operatorio.
In realtà ero arrivato all’intervento con atteggiamento molto sereno perché la sera prima era venuto a trovarmi il dottore Centonze, anestesista, responsabile della Terapia intensiva, che doveva, dalla lettura delle carte e dal colloquio con me, dare l’ultimo via libera per l’intervento. Il colloquio era durato circa due ore; come aveva sottolineato al momento dei saluti, non era stato un colloquio come quelli di routine. È consolante scoprire che anche in un settore come quello della sanità, rosicchiato da topi di tutte le razze e colori, vi siano ancora persone che non solo credono nel loro lavoro e che al di là della foresta di delusioni che hanno dovuto attraversare hanno ancora voglia di usare la propria testa e le energie per rendere questa società un pochino, almeno un pochino, più giusta e più bella. È la stessa sensazione che ho provato quando, insieme al dottore Montinaro e al dottore Villani, abbiamo discusso del percorso terapeutico più idoneo ad uno come me, con un cuore sano e le coronarie da buttare.
Mi hanno infilato qualcosa di freddo nel braccio destro, mi hanno chiesto di alzare il mento e di tenere la bocca bene aperta. Sto per scomparire da questo mondo. Ho solo pochi momenti per cercare una canzone. Sì, cerco un motivo da riprendere eventualmente al mio risveglio. Mi viene in mente la canzone di Gaber: “Il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamavan Drago. Gli amici al bar del Giambellino, dicevan che era un Mago…”
Io sono un mago, io sono un mago, io sono un mago…
“Professore respiri profondamente.”
Io sono un ma…