Dalla riproduzione, alla mimesis, ai neuroni mirror. Appunti sui fondamenti biologici della rappresentazione teatrale. Di Luigi A. Santoro
Testi, contesti, pretesti
Il tema del nostro contributo è quello delineato dalla domanda: Quale posto occupa il teatro nel quadro più generale della rappresentazione? La tesi che vogliamo sostenere è che l’attività teatrale costituisce la fase più complessa del processo di rappresentazione che caratterizza la comparsa e l’evoluzione della vita. Questo significa che per comprendere la complessità del fare teatro occorre analizzare a fondo il ruolo che la rappresentazione ha giocato e gioca nel processo evolutivo delle creature viventi.
Non abbiamo lo spazio, né tutti gli elementi per dare conto delle svolte che tale processo ha subito (e continua a subire) e perciò dovremo più volte soffermarci a segnalare i nodi, le ambiguità e le contraddizioni che intorno al termine ‘rappresentazione’ (e ai processi cui tale termine rimanda) hanno incontrato gli studi che hanno adottato metodi e strumenti specialistici, tanto quelli di area scientifica, che umanistica.
Ancora una precisazione: il nostro percorso – utilizziamo una frase di Bouvet – si svilupperà tra il mondo dell’oggetto senza l’apparenza e il mondo dell’apparenza senza l’oggetto. Ma poiché la nostra competenza si riduce a piccole regioni del mondo popolato da oggetti con apparenza, anzi dotati prima di tutto di quell’apparenza che Aristotele faceva derivare dall’attività di mimesi, le tappe del viaggio saranno spedizioni, o meglio, scorrerie di un pirata che non disdegna di spingersi nelle terre e nelle acque nebbiose del narrare e dell’errare.
Il punto di partenza è stato una confusa intuizione. Dopo aver ricordato che l’attività di mimesi è connaturata all’uomo fin dall’infanzia e che proprio attraverso quell’attività egli acquista conoscenza del mondo, Aristotele afferma che la tragedia (e la commedia), cioè la forma più alta, matura e completa di rappresentazione è nata da rozze improvvisazioni (autoskediastikes), ma poi, dopo aver subito molte trasformazioni cessò di modificarsi quando raggiunse la sua propria natura. La mimesi è un’attività innata e naturale, ma anche l’artefatto della rappresentazione tragica si evolve come un organismo fino a conquistare la sua propria natura. Le molte trasformazioni vengono avviate dalle rozze improvvisazioni o l’onda dei tanti mutamenti (pollas metabolas) viene da molto più lontano? Intanto Aristotele stesso dice che, sebbene in misura minore degli uomini, anche gli animali hanno la capacità di fare mimesi; ma se si tratta di una dote naturale questo significa che può essere estesa a tutta la natura? Domande rischiose per chi studia il teatro. Altrettanto rischiose per chi lo fa.
Christian De Duve, premio Nobel per la medicina 1974, conclude la discussione sul finalismo con queste considerazioni: “La comparsa dell’umanità, secondo questi odierni difensori del finalismo, sarebbe non solo estremamente improbabile, ma del tutto impossibile, almeno nell’ambito di processi rigorosamente naturali. Si accumulano troppe coincidenze a bassissima probabilità […]Eppure l’evento si è prodotto. Pertanto, deve esserci stato <<qualcos’altro>>. Questa entità oscura è stata attribuita a qualche principio di natura ignota non ancora scoperto, descritto approssimativamente da parole come autopoiesi, autoorganizzazione, legge della complessità o forza informazionale, o addirittura è stata identificata con qualche manifestazione misteriosa della meccanica quantistica. Alcuni non esitano a vederla addirittura come la mano di Dio che manipola direttamente i geni.” . La posizione del cattolico De Duve è netta e sorprendente: non c’è bisogno di alcun intervento esterno e soprannaturale per spiegare la comparsa e l’evoluzione della vita; la materia di cui è fatto l’universo possiede tutti gl’ingredienti e le proprietà per dar vita alla vita. L’intuizione di partenza ora è meno confusa?
Un altro premio Nobel, Ilya Prigogine, ha osservato che gli organismi viventi possono essere considerati come strutture lontane dall’equilibrio che per esistere devono scambiare con l’esterno materia, energia e comunicazione: “la materia è cieca in prossimità dell’equilibrio, là dove la freccia del tempo non si manifesta; ma quando questa si presenta, lontano dall’equilibrio, la materia comincia a vedere! Senza la coerenza dei processi irreversibili del non-equilibrio, l’apparizione della vita sulla Terra sarebbe inconcepibile.”. La metafora della materia vedente viene ripresa nel secondo capitolo intitolato ‘Solo un’illusione?’: “…lontano dall’equilibrio la materia acquista proprietà nuove. Miliardi di molecole interagiscono, e la coerenza dei loro comportamenti si manifesta nel cambiamento di colore della soluzione [il riferimento è alla reazione di Belusov-Zabotinskij]. Questo significa che in condizioni di non – equilibrio si manifestano correlazioni di grande portata che non esistono nello stato di equilibrio. Per esprimerci in modo figurato, possiamo dire che all’equilibrio la materia è cieca, mentre lontano dall’equilibrio comincia a vedere. E questa nuova proprietà, questa sensibilità della materia a se stessa e al suo ambiente, è connessa alla dissipazione associata ai processi irreversibili.”. Vedere e sentire. E poi mangiare, spostarsi, amare, odiare, ricordare, sognare, immaginare…perché Eschilo non sembri lontanissimo e anche le rozze improvvisazioni evocate da Aristotele non sembrino cose di un altro mondo. E’ con questa “sensibilità della materia a se stessa”, rilevata da Prigogine, che possiamo cominciare ad individuare la zona dalla quale prese forma l’onda della mimesi. Vedremo più avanti quanto il percorso che abbiamo appena indicato ci costringerà ad interrogarci sulla vera natura della mimesi che non potrà essere solo imitazione, produzione di copie più o meno fedeli. Intanto, possiamo cominciare a definire meglio i corni del problema: tra l’attività mimetica che caratterizza gli animali ‘superiori’, l’uomo in modo particolare, e quella che Prigogine ha definito “sensibilità della materia a se stessa” esiste una qualche relazione significativa? Detto ancora con altre parole: se l’evoluzione è il filo conduttore che si dipana attraverso le diverse forme della vita, è utile ipotizzare che la rappresentazione possa costituire un filo parallelo che comincia a srotolarsi con la comparsa della vita fino ad intessere le complesse attività mimetiche dell’uomo e delle società? Il teatro è vita e la vita è teatro sono solamente giochi di parole o scontate metafore? E se invece potessero ri-velando svelarci aspetti inediti della vita a cominciare dal fatto che la vita è costretta a rinascere senza sosta e ogni essere a ri-prodursi, a re-spirare, a ri-alimentarsi?
Un brano di Morin ci aiuta a riflettere sulla complessità della particella ‘RI’ che il sociologo francese definisce “radicale concettuale”: “Troviamo il prefisso RI in tutti i termini che abbiamo usato ora: riorganizzazione, ricorsione, ripetizione, rinnovamento, ristabilimento, rigenerazione.”. Colpisce il fatto che fra i termini citati non compaia quello di rappresentazione, sebbene affermi che “Questa radice RI ci appare, già a un primo sguardo, di una ricchezza sorprendente. Essa racchiude e comporta:
– l’idea di ripetizione (raddoppiamento e moltiplicazione);
– l’idea di ricominciamento e di rinnovamento;
– l’idea di rinforzo;
– l’idea di comunicazione/ connessione tra ciò che altrimenti sarebbe separato (come in riunire, rilegare).”.
Ma tutte quelle idee non potrebbero essere figlie della rappresentazione? Morin propone invece la ripetizione. La possibilità di ritrovare in azione il RI nel mondo della physis, in quello del bios e in quello antropo – sociale forse ci autorizza ad utilizzare questo radicale concettuale come categoria unitaria e generale, nella forma della ripetizione, che attraversa ogni scomposizione: “Questa produzione e riproduzione d’ordine dipende certo da dinamismi fisici e da interazioni chimiche, i quali seguono le indicazioni engrammate della memoria genetica che, presente in ogni determinazione della riproduzione, a cominciare dalla sua stessa riproduzione.”.
L’ipotesi di partenza, a questo punto, crediamo risulti molto più chiara: sarebbe vantaggioso tradurre il radicale concettuale RI nella categoria generale della ra/ppresent/azione invece che in quella di ripetizione? A prima vista, si può rispondere affermativamente se non altro perché il termine ripetizione rimanda alla meccanica della copia, mentre quello di rappresentazione contiene il lavorio della contrattazione fra soggetto e oggetto, fra passato e presente, tra il fare e il pensare. Ma questo non comporta una inquietante irruzione dell’oggetto nel soggetto e viceversa? Nel primo paragrafo della Prefazione l’autore, De Duve, racconta le sensazioni di “una serena notte estiva di quasi settantacinque anni fa”. Nel secondo paragrafo spiega la ragione dell’avvio di un volume su Come evolve la vita: “Ho ricordato questa esperienza della mia prima giovinezza perché essa contribuisce a spiegare il tono di questo libro, su cui hanno influito in modo significativo il mio ambiente familiare e il tipo di educazione che ho ricevuto da bambino, soprattutto nel contesto religioso.”.
Nel volume di Morin, il soggetto – autore del volume compare nella Conclusione: “Chi ha scritto questo libro? E’ nel momento in cui l’autore crede di essere completamente scomparso in quello che ha creduto essere la giusta e vera ragione delle cose, che deve ricomparire. […] Ma so anche che l’estrema umiltà del mio punto di vista riaffiora continuamente, con il riaffiorare nel movimento a spirale dell’osservatore/concettore, soggetto periferico e parziale che deve, nel suo stesso sforzo di conoscenza, riconoscere i limiti fisici, biologici, sociali, idiosincratici della sua conoscenza. […] So che proiettiamo le nostre visioni di origine sociale, culturale, pulsionale, soggettiva sulla natura e la vita, e so che questo sapere riguarda non solo gli altri, ma anche me. […] So di aver proiettato continuamente il mio brivido lirico davanti alla vita, la mia sensazione assoluta del suo mistero, la mia meraviglia…
Prigogine aveva affrontato il problema del soggetto esaminando il ruolo dell’osservatore in rapporto alla conoscenza dei fenomeni di natura fisico – chimica, ma le sue considerazioni finiscono per investire anche il mondo antropo – sociale: “è un tema che ricorre nella maggioranza delle idee fondamentali che hanno avuto origine con lo sviluppo della fisica nel secolo XX.” – scrive in un volume del 1978, e più avanti chiarisce: “Il ruolo dell’osservatore nella meccanica quantistica è stato un tema ricorrente nella letteratura scientifica nel corso degli ultimi cinquant’anni. Quali che siano gli sviluppi futuri, questo ruolo è fondamentale.” . Le sue conclusioni investono anche le zone proprie delle attività umane più alte: “L’accresciuta limitazione delle leggi deterministiche significa che andiamo da un universo chiuso, nel quale tutto è dato, ad un mondo nuovo aperto alle fluttuazioni, alle innovazioni.”. Un mondo cosiffatto, che si presenta, cioè, in “una forma di realtà più sottile che comprende sia le leggi sia i giochi, il tempo e l’eternità” e che richiede nuove forme di arte, di musica, di letteratura, e nuove forme di scienza” non può non richiedere percorsi di conoscenza capaci di rendere conto delle turbolenze e degli equilibri instabili che caratterizzano ogni incontro fra soggetto e oggetto, fra osservatore e fenomeno osservato. D’altra parte la scena che le parole di Prigogine sembrano costruire è quella dell’incontro fra il mondo antropo – sociale e quello regolato dalle leggi fisico – chimiche. Ma la scena è guardata/costruita da un essere umano che si occupa di chimica e di fisica e, però, gode anche dei prodotti dell’arte, della musica, della letteratura, del teatro; che ama e odia, si annoia, s’infiamma, ha paura. L’osservatore asettico del comportamento di atomi e molecole, di cellule e tessuti appare agli occhi dell’osservatore coinvolto o, comunque, consapevole almeno del fatto che egli è costituito degli stessi atomi e molecole, cellule e tessuti, come un serioso buffone che mima l’onniscenza di Dio. E poi c’è il nostro sguardo che osserva Prigogine che indica l’osservatore asettico che presenta la scena del mondo disposta a forma d’equazione.
E allora il percorso che stiamo facendo non potrà essere lineare, dovrà invece continuamente vagare fra gli incroci del dubbio e rimanere impigliato nei nodi che, intrecciando in modo inestricabile soggetto e oggetto, sostengono la fragile rete della nostra conoscenza. A cominciare da quello che lega l’essere che s’interroga sull’origine della vita alle cellule che lo costituiscono nascendo e morendo ogni momento.
Comunicare/Rappresentare
Un primo groviglio è facilmente individuabile nel rapporto tra comunicazione e rappresentazione. Può esserci comunicazione senza rappresentazione? La rappresentazione può avvenire al di fuori del processo comunicativo? La rappresentazione è l’unica sostanza che viene scambiata quando viene attivato un fatto comunicativo? Sono queste domande che per poter esistere ed avere un senso richiedono una struttura spaventosamente complessa come il cervello umano correlato e connesso ad un sistema di altre strutture complesse (il corpo), a loro volta correlate e connesse ad insiemi di altre strutture che costituiscono i sistemi sociali. Se a questo aggiungiamo che quelle strutture non sono il risultato di progetti finalizzati, né hanno seguito solamente la logica della necessità ma anche quella del caso, non possiamo non condividere la considerazione di Anthony Wilden sul fatto che “Nessuno dei tradizionali approcci delle scienze naturali o di quelle umane, o dell’arte, né i tentativi interdisciplinari di questi ultimi anni, sono in grado di rappresentare adeguatamente o descrivere, e tanto meno analizzare, la maggior parte dei processi realmente significativi che interessano la vita conscia, inconscia e quella fisica degli esseri umani nella società” . In effetti, la pubblicazione, nel 1964, del contributo di Snow, in cui l’autore auspicava la nascita di una <<terza cultura>> entro la quale fosse possibile una interazione fra le procedure di modellizzazione astratta proprie della matematica e i metodi e le esperienze di coloro che si occupano di scienze sperimentali e umanistiche , aveva avuto il merito di provocare alcuni contributi che hanno tentato l’attraversamento dei confini disciplinari ma con l’obiettivo di sottoporre materiali di natura diversa al metodo scientifico che semplicisticamente veniva fatto coincidere con quello delle scienze esatte. Tuttavia, mentre il mondo scientifico, o almeno la parte più avvertita, prendeva atto che la ricomposizione delle due culture, scientifica e umanistica, richiedeva agli scienziati di rivedere in modo radicale gli statuti delle loro discipline, chi operava nel campo delle scienze umane, o provvedeva a rafforzare la recinzione del proprio ambito disciplinare, oppure si abbandonava ad una grottesca opera di semplificazione e scimmiottamento dei metodi e degli strumenti di chi operava nell’altro campo . Il fatto è che il quadro generale dell’articolazione dei campi di ricerca si presenta ancora oggi chiaramente suddiviso in tre strati, o livelli: quello della physis, della materia; quello del bios, della materia vivente; quello della polis, delle società umane. I mattoni, i tasselli delle tre parti del mosaico sembrano (perché lo sguardo rimane impreciso) essere gli atomi e le molecole, le cellule, gli organismi, i prodotti socio culturali. E certamente non è difficile accettare il principio della progressiva complessità: gli atomi sono dentro le molecole che sono dentro le cellule che costituiscono gli organismi viventi che producono diversi livelli di coscienza e di aggregazione sociale. Diventa più difficile accettare, o almeno legittimare, il percorso inverso, quello che procede dall’alto verso il basso, dal mondo del pensiero a quello cellulare, atomico e sub atomico. Eppure è esattamente questo che facciamo anche quando analizziamo il funzionamento di un organo o il comportamento dei componenti dell’atomo. C’è sempre un cervello che pensa la funzione d’onda o le sequenze del DNA. Ma avremmo potuto spingere la conoscenza verso l’estremamente piccolo o l’incredibilmente grande senza inventarci una qualche rappresentazione dell’atomo o del Big Bang?
“Si tratta di processi – osserva ancora Wilden [quelli relativi alla comunicazione] – le cui manifestazioni incorporano ed inglobano i tre principali livelli di complessità dell’universo: il livello inorganico, quello organico, quello socioeconomico. Tali processi implicano anche il continuo attraversamento delle varie frontiere spaziali, temporali ed organizzative esistenti all’interno di tali livelli, e fra questi (e altri) livelli di complessità. Di conseguenza qualsiasi approccio a questo argomento dovrà necessariamente superare i limiti concettuali delle varie discipline.” Credo sia sufficiente richiamare la necessità di prendere in considerazione il ruolo dell’osservatore per legittimare l’inclusione fra i processi indicati da Wilden anche quelli relativi alla rappresentazione. Non seguiremo le riflessioni di Wilden a proposito dei sistemi aperti e dei sistemi chiusi, vogliamo solamente richiamare la considerazione che “il confine fra (ciò che si è definito) <<sistema>> e (ciò che si è definito) <<ambiente>> è l’effettivo luogo di ogni comunicazione o scambio fra loro.” , per dire che, come vedremo tra poco, il confine è anche il luogo privilegiato dove s’addensa la rappresentazione.
Feste e spettacoli
L’osservatore è sempre al di là di un confine. Il confine della comunità non è netto. Anche le mura di una città hanno porte. Tebe ne aveva sette. E davanti alle porte la voce del mito richiamò sette guerrieri e altri sette dietro le porte ed Eschilo li cantò con sette trimetri e fece vedere agli spettatori, durante la 78a Olimpiade che cosa comportasse attraversare il confine della città, delle leggi, delle tradizioni, dei rapporti di parentela. Il confine che unisce separando gli attori e gli spettatori inquietava Rousseau che invece si struggeva nella nostalgia della festa dentro la quale il confine si sfocava, ma per ispessirsi ai margini della comunità dove però già è giunto un altro tipo di spettatore e gli attori vengono da lontano.
Le parole con cui Rousseau risponde a D’Alembert sull’opportunità di realizzare degli spettacoli teatrali a Ginevra: “Ma, infine, quali saranno gli oggetti di questi spettacoli? Niente, se si vuole…Piantate al centro di una piazza un palo con una ghirlanda di fiori, radunate il popolo e avrete una festa. Fate ancora di più, fate degli spettatori uno spettacolo: fateli diventare attori anch’essi.” offrono a Furio Jesi l’opportunità di sviluppare una serie di acute osservazioni sulla natura della festa. Scrive Jesi: “Caratteristica della festa, quale essa risulta secondo tale modello [quello proposto da Rousseau] è la sua prerogativa di determinare un centro nella collettività: di rendere attuale nella collettività il punto latente più lontano dai suoi bordi. In questo senso la festa è radicamento della collettività nel suo intimo, fondazione della collettività […]L’esperienza festiva non si limita ad afferrare la collettività dall’esterno e dall’interno simultaneamente (dall’esterno della festa che non è ancora e dall’interno della festa che è, per la collettività, latenza di centro perenne), ma, coinvolgendo nel centro tutte le parti della collettività, fondando la collettività, facendo di essa un blocco unico in cui il centro permea uniformemente ogni parte, pone il centro della collettività a contatto diretto con l’esterno di essa: identifica il centro con le marche di confine, fa paradossalmente del centro il bordo esterno.” Nella rappresentazione festiva, dunque, i confini, i margini collassano verso il centro, mentre contemporaneamente il centro migra verso i confini. E’ questa identità forte e totale – perché sostenuta da un eccezionale investimento di energia che intreccia centro e margini, radici e fronde, passato e futuro – che impregna ogni singola comunità durante la rappresentazione festiva a offrirsi allo sguardo dell’osservatore come quintessenza di diversità. Se le incombenze del quotidiano sfumano nell’indistinto, le rappresentazioni festive sono pronte ad offrirsi allo sguardo degli altri trasformando una radicale identità in una radicale diversità. La comunicazione della rappresentazione festiva ha, dunque, due facce: quella rivolta verso la comunità festante secerne e consolida processi identitari; quella percepita e decodificata dall’osservatore esterno si condensa in forme di forte alterità. Sul confine poroso è al lavoro la chimica delle reazioni sociali che assimila o allontana l’alterità. Ritorneremo sul fatto che, fino a quando la rappresentazione teatrale ha trovato posto nel cuore delle rappresentazioni festive, ha mantenuto una funzione centrale nell’architettura e nella vita della comunità, mentre quando si è spostata verso il quotidiano, il rischio di perdersi nelle periferie marginali delle società è diventato concreto, a volte auspicato, altre ancora preteso.
Non sappiamo se la rappresentazione abbia un inizio. Forse ne ha molti. Alcuni hanno il fascino dell’imprevisto, delle svolte, del cambio repentino.
Le pieghe della materia
“Perché, prima che il mondo fosse, non esisteva niente […] E nessuno andava errando, in quel nulla che non esisteva, in cerca di un’inconcepibile apparenza. Perché l’apparenza fosse, ci sono voluti gli oggetti, e naturalmente qualcuno che li guardasse. E questo sguardo presuppone gli occhi, o almeno organi sensibili alle radiazioni luminose, quindi organismi, quindi la vita, la quale, come sappiamo si è fatta un po’ aspettare. Per molto tempo un mondo cieco a se stesso ha fatto a meno dell’apparenza” .
Bouvet percorre di gran carriera i tempi lunghi e lenti delle prime apparenze forse perché è troppo interessato alla sinfonia di apparenze che verrà suonata dagli organismi pluricellulari – “Se la natura fosse una festa, il ballo sarebbe in maschera” – e mira all’uomo “questo stratega dell’apparenza, questo esperto in inganni, questa scimmia narcisistica” che trascorrerà buona parte della sua vita a tessere inganni, simulazioni e dissimulazioni; frodi, elusioni e falsificazioni. L’esistenza del nostro mondo senza ‘apparenza’ è concepibile soltanto entro un tempo d’attesa, attesa per l’apparenza.
A poco vale la constatazione che ci sono vaste porzioni dell’universo vicine e lontane popolate da mondi privi d’autonome apparenze; il nostro sguardo allungato da telescopi, o lanciato verso i confini del sistema solare da navicelle spaziali, inventa ed evoca apparenze anche per luoghi dove la materia sembra un muro compatto.
Fatichiamo non poco a pensare che il nostro pianeta abbia dovuto attendere almeno un miliardo di anni per produrre la confusa apparenza delle cellule procariote (batteri e cianofite) e quasi altri due miliardi di anni per produrre l’apparenza appena meno confusa delle cellule eucariote, quelle dotate di nucleo. Ma per poter dare vita ad una apparenza capace di riflettere la complessità del mondo, quelle degli animali pluricellulari, l’attesa si prolungherà ben quattro miliardi di anni.
L’attesa, la nostra attesa. Allora non esisteva niente e nessuno che attendesse qualcosa o qualcuno. I miliardi di anni, come le manciate di secondi, erano cose senza senso. Non c’erano e basta. Non c’era il tempo. Possiamo solo immaginare che ci stavano gli orologi degli atomi e delle molecole, dei processi chimici inorganici, dei macro fenomeni naturali come eruzioni e scariche elettriche, ma non c’erano occhi per vederli, né orecchie per sentirli.
Sono appena ottocento milioni di anni che la terra è percorsa da specchi viventi, capaci di rifletterla, scomponendola e ricomponendola senza posa, scomponendosi e ricomponendosi senza posa. Eppure è quel primo specchio opaco, sfocato, quello costituito dallo ‘sguardo’ dei batteri che incrina la compattezza del “muro della complessità minima” e apre la via dell’apparenza, della vita.
In molti s’ingegnano a tentare di capire come il laboratorio chimico, il miscuglio di sostanze che costituirà la cellula sia stato capace di staccarsi dal muro della complessità minima e si sia dislocato lontano dalle condizioni di equilibrio; sia diventato, come ha detto Prigogine, una “struttura dissipativa”, un organismo vivente.
Con molte cautele possiamo individuare un primo sfavillio dell’apparenza nelle turbolenze inorganiche attivate dalla nostra stella, il sole.
Tra i tantissimi elementi che sono stati prodotti nel corso della formazione del sistema solare e poi dei singoli pianeti, ce n’è uno molto singolare e che giocherà un ruolo da protagonista nell’origine della vita, il carbonio. John D. Barrow lo ha messo alla base del principio antropico: “Anche se le cose stessero diversamente noi siamo, di fatto, una forma di vita intelligente basata sul carbonio che si è sviluppata spontaneamente su un pianeta di tipo terrestre orbitante intorno a una stella di tipo spettrale G2: ogni osservazione da noi compiuta è necessariamente subordinata a questo dato assolutamente fondamentale.”.
Questo elemento non esisteva in natura allo stato atomico: o era in combinazione con se stesso (bicarbonio), o con l’idrogeno (gruppo metinico), o con azoto (cianogeno).
Ora, se consideriamo che l’atmosfera del nostro pianeta prima della comparsa della vita era, come la chiamano i chimici, riducente (priva di ossigeno e ricca d’idrogeno) e che anche il carbonio, la sostanza fondamentale di tutti i composti organici, esisteva in forma ridotta, possiamo dedurre che l’apparizione della vita sia strettamente connessa al processo, durato almeno un miliardo di anni, che ha portato dallo stato ridotto allo stato ossidato (assorbimento di ossigeno), con al centro il bisogno di legame con se stesso o con altri elementi da parte del carbonio.
Non è ancora la prima ‘replica’ nel senso della produzione di una seconda piega ricalcata sulla prima, ma è se non altro singolare la necessità di un legame con un secondo atomo da parte del carbonio; come se intorno a questo elemento esistesse un vuoto teso, un risucchio, un vortice, uno spazio elastico pronto a distendersi per ospitare le capriole della materia proiettata verso la vita.
Tra i tanti mattoni che costituiscono il mosaico della materia, quello del carbonio è particolare. Ma sappiamo che l’immagine degli atomi come mattoni è inadeguata. Gli atomi sono sistemi complessi che, oltretutto, conservano memoria delle contorsioni dell’universo. E tra gli atomi, le molecole, le macromolecole, le supermolecole, le cellule, i tessuti, gli organismi, le società s’intrecciano sistemi di sistemi di sistemi che, come ha sottolineato Morin, sono caratterizzati dalla possibilità di far emergere qualità nuove e mai riducibili a quelle dei singoli elementi di ciascun sistema. Si apre così una prospettiva nuova e sorprendente per comprendere la natura della physis: “Questo mistero di emergenza, lo stesso mistero della vita e della coscienza, appare già <<nel mistero fisico dell’atomo, della molecola, o anche di un circuito di risonanza>> (J Stewart)”.
Le pieghe viventi
Non sappiamo, e forse non lo sapremo mai, qual è stata la capriola vincente o la sequenza di ‘numeri’ che, nel circo delle combinazioni, ha portato un insieme di sostanze ad organizzarsi, scambiare materia ed energia con l’ambiente, riprodursi. Sappiamo però che la vita è inscindibile dalla capacità, anche (prima di tutto) da parte di un organismo unicellulare, di replicarsi.
Il periodo incredibilmente lungo, da tre miliardi e mezzo di anni fa a seicento milioni di anni fa, durante il quale la vita ha interessato quasi esclusivamente organismi unicellulari, ci autorizza a pensare che “ I batteri rappresentano il più grande successo della storia della vita” e che la successiva organizzazione della struttura pluricellulare avviata e conclusa in meno di cento milioni di anni – quella che i paleontologi chiamano “l’esplosione del Cambriano”- sia ben poca cosa rispetto allo strappo costituito dall’emergere della vita con e negli organismi unicellulari. Forse possiamo anche aggiungere che la varietà di forme sperimentata dagli esseri pluricellulari perderebbe di senso se non ‘galleggiasse’ sull’oceano di vita unicellulare caratterizzata dalla replicabilità e dallo scambio con l’ambiente.
Ma l’immagine dell’oceano può portarci fuori strada: in qualsiasi modo immaginiamo la condizione della materia, prima della comparsa della vita, di sicuro non possiamo sottovalutare il lungo e contraddittorio processo di separazione, di scontornamento che ha portato all’autonomia condizionata degli organismi unicellulari.
Non possiamo sapere con precisione quali siano state le tappe, le svolte di questo processo. La comparsa di “coacervati”, cioè ammassi di molecole simili, entro i quali si sarebbero realizzate reazioni chimiche diverse e più dense di quelle che si svolgevano nell’ambiente circostante è tuttora una ipotesi. Quello che sappiamo è che alla fine di questo processo troviamo un laboratorio chimico di complessità impressionante, in grado di crescere e riprodursi, isolato da e connesso all’ambiente da una membrana capace di selezionare gli scambi tra l’interno e l’esterno e viceversa.
I processi di crescita e di riproduzione ci offrono con una certa evidenza il meccanismo della auto duplicazione, della replica in azione: il laboratorio cellula deve essere in grado di replicare tutti i suoi componenti e, contemporaneamente, coordinare tutte le reazioni – relazioni che avvengono tra di essi: il raddoppiamento e la successiva divisione del filamento del DNA, l’instancabile processo di trascrizione dell’RNA, l’innesco delle attività enzimatiche, la produzione di proteine specifiche, la costruzione di doppie membrane vescicolari; tutto questo (e altro) appare come la messa in scena spettacolare della replica della vita che, come la messa in scena teatrale rifiuta il vuoto, il fuori scena.
Più difficoltoso intravedere lo stesso meccanismo all’opera nello scambio interno / esterno. Qui, infatti, occorre mettere in conto la necessità di agire sull’ambiente in modo tale che esso fornisca tutte le sostanze necessarie alla conservazione del sistema cellula (eterocatalisi), ma anche la necessità che il sistema cellula possa mutare quanto gli permette di adattarsi meglio all’ambiente.
In altre parole, l’oscillazione fra conservazione e mutazione crea lo spazio entro il quale emerge una nuova forma e modalità di replica: la filiazione, cioè una copia divaricata tra invarianza e cambiamento. E crea anche un tempo diverso da quello atomico e molecolare: è un tempo che scava una fitta rete di cunicoli tra le oscillazioni degli elettroni e la nascita e morte del sole, tra le reazioni chimiche e i rivolgimenti celesti. E’ il tempo della vita.
Quando pensiamo alla vita come a qualcosa che sboccia dalla poltiglia di elementi microscopici, dal ‘limo primordiale’ non possiamo fare a meno d’immaginare un processo di stratificazione progressiva. Ma in questo modo dimentichiamo che quella poltiglia non stava sotto una campana di vetro: l’azione del sole avvolgeva e penetrava il nostro pianeta ed era indispensabile per innescare e sostenere le complesse reazioni fra gli atomi e le molecole. Con una immagine, e una buona dose di semplificazione, possiamo dire che la vita è, contemporaneamente, zampillata dal basso e piovuta dall’alto.
Ad ogni modo l’oceano di vita unicellulare che tre miliardi e mezzo di anni fa comincia ad avvolgere il nostro pianeta, costituisce il primo velo di ‘apparenza’, la prima fittissima rete di ‘sguardi’ distesi fra un ‘interno’ e un ‘esterno’. La separazione dell’organismo unicellulare è inscindibile dal processo di ‘scontornamento’ degli oggetti.
La comparsa della vita frantuma il “mondo cieco a se stesso” immaginato da Jean – Francois Bouvet; i primi oggetti si staccano dallo sfondo e vengono respinti o attirati al di là o al di qua della membrana cellulare. Quando, appena seicento milioni di anni fa, compaiono i primi organismi pluricellulari, i veli delle apparenze si moltiplicano e si diversificano. Il mondo si popola di oggetti e di sguardi. L’abbondanza di cellule negli organismi pluricellulari favorisce la specializzazione, la migrazione, l’organizzazione di quelle fotosensibili in strutture particolari.
Se, allora, ci accontentiamo della dichiarazione di De Duve che “la vita è una manifestazione obbligata delle proprietà combinatorie della materia” e se ci è sufficiente la constatazione che la comparsa della prima apparenza è legata alla ‘duplicazione’ e allo scontornamento (possiamo dire che la materia si duplica nella materia vivente e che il meccanismo della replica comporta anche quello della separazione?) le forme di apparenze che seguiranno dovranno conservare sempre e comunque questo meccanismo originario. Gli organismi pluricellulari, in altre parole, non potranno più (e mai) liberarsi delle possibilità e dei limiti connessi alla struttura cellulare.
Lo studio di Barbour si chiude col commento ad una riflessione di Mach a proposito della filosofia esquimese: “Tutti osserviamo il grande spettacolo, e vi partecipiamo. L’immortalità è qui. Il nostro compito è riconoscerlo. Alcuni Adesso sono emozionanti e meravigliosi al di là delle possibili descrizioni: è questo il loro dono supremo.”.
Julian Barbour forse non si accorge che la citazione di una massima aborigena riportata qualche rigo più sopra, su indicazione di Gretchen Kubasiak: “Siamo tutti visitatori di questo tempo, di questo luogo. Siamo semplicemente di passaggio. Il nostro scopo è osservare, imparare, crescere, amare […] E poi torniamo a casa.”, sembra ricalcata sul famoso brano di Democrito nel quale troviamo già condensata la metafora del mondo come teatro: “Il cosmo è un palcoscenico e la vita è un passaggio sulla scena di questo palco: entri, guardi ed esci.
Il cosmo è mutamento, la vita è opinione che si adegua.”.
Membrane per mascherarsi
Il periodo incredibilmente lungo, da tre miliardi e mezzo di anni fa a seicento milioni di anni fa, durante il quale la vita ha interessato quasi esclusivamente organismi unicellulari, ci autorizza a pensare che “I batteri rappresentano il più grande successo della storia della vita” e che la successiva organizzazione della struttura pluricellulare avviata e conclusa in meno di cento milioni di anni – quella che i paleontologi chiamano “l’esplosione del Cambriano”- sia ben poca cosa rispetto allo strappo costituito dall’emergere della vita con e negli organismi unicellulari. Possiamo descrivere il rapporto tra i componenti degli organismi unicellulari e tra gli organismi e l’ambiente come una sequenza di re-azioni fra elementi chimico-fisici che comunicano e reagiscono al riparo della membrana cellulare, ma dialogano anche con quanto è fuori, al di là della membrana che separa e congiunge selettivamente la cellula al suo ‘intorno’. E le condizioni perché questo dialogo non s’interrompa non sono irrilevanti e, in ogni caso, continueranno a rimanere indispensabili anche per gli organismi più complessi che emergeranno dalle contorsioni ramificate del processo evolutivo. Intanto le re-azioni interne avranno tempi e spazi definiti e molto più piccoli rispetto a quelle che avvengono all’esterno; avranno bisogno di temperature che non si discostino molto dai 37° e di una memoria capace di trasmettere le istruzioni ai discendenti operando una continua contrattazione tra l’invarianza e i cambiamenti importati dai vortici della casualità. Certo è che tra le strategie messe in atto dagli organismi unicellulari per sopravvivere e riprodursi e quelle dell’homo sapiens si estende un enorme palcoscenico sul quale miliardi di esseri hanno interpretato e continuano ad interpretare travestimenti, simulazioni e dissimulazioni, mascheramenti e smascheramenti. E anche per l’uomo le capacità mimetiche rimangono strettamente connesse ai bisogni elementari di alimentarsi e riprodursi: la caccia e la guerra , come l’accoppiamento e la riproduzione, sollecitano strategie e tecniche sempre più complesse di rappresentazione (danze, pitture, racconti, nodi, reti, archi e frecce, strumenti musicali) che paiono avere come tratto comune quello di avvicinare e congiungere quello che appare frammentato e disgiunto. Forse possiamo azzardare: la forza della rappresentazione potrebbe essere una specie di compensazione della separazione originaria della materia vivente dalla materia; un risarcimento declinato nella lunga sequenza di distinzioni che ha prodotto la varietà delle forme di vita.
Non sappiamo se prima di organizzarsi in gruppi stanziali gli uomini si ponessero domande intorno all’origine del mondo e alla comparsa della vita. E possiamo solo fare delle ipotesi sui perché, quando hanno cominciato a lasciare tracce delle loro domande, hanno inventato esseri soprannaturali e quasi sempre con sembianze d’animali. Rimane il fatto che mentre separavano animali e piante, cielo e terra, passato e presente, morti e vivi inventavano miti e riti che allo stesso tempo servivano per ricongiungere, ricomporre quanto avevano separato e scontornato. Gli studiosi sono concordi nel considerare che la comparsa del linguaggio, dopo (o insieme) l’acquisizione della bipedia e della liberazione della mano, con la contemporanea apertura del ventaglio corticale, ha costituito una svolta radicale nell’evoluzione degli Antropiani. La scoperta da parte di Leakey delle tracce di un bipede e il corredo di rozzi utensili costituiti da pietre scheggiate presso la Gola di Oldoway, in Tanzania, segna il punto di partenza di una ricerca mirata a scoprire il pensiero e il linguaggio da miseri reperti costituiti da ossa, frammenti di selce e resti di pasti. “La comparsa dell’utensile – ha sottolineato Leroi-Gourhan – tra i caratteri specifici segna appunto la particolare frontiera dell’umanità, con una lunga transizione nel corso della quale a poco a poco la sociologia prende il posto alla zoologia.” . Un elemento che, tuttavia, è stato tenuto in scarsa considerazione è che in siti come quello di Oldoway, tra i miseri resti e a distanza di centinaia di migliaia di anni, aleggia una sottile tensione di causalità ben riconoscibile tra le smagliature della casualità. Un filo tenue che ci permette d’intravedere una finalizzazione delle azioni, una sottolineatura nella sequenza dei gesti e forse persino una organizzazione delle vocalizzazioni.
Come avrebbero reagito gli ominidi della Gola di Oldowai se qualcuno avesse potuto dire loro che diverse centinaia di migliaia di anni dopo un gruppo di loro discendenti avrebbe fatto salti di gioia di fronte al mucchio di sassi, in parte lavorati e in parte grezzi, che avevano trasportato dal letto di un fiume che scorreva a qualche miglio di distanza dalla loro caverna? La polemica che seguì alla pubblicazione dell’articolo sulla rivista <<Nature>> costringe alla cautela; tuttavia, se non proprio quel gruppo di ominidi prima o poi i nostri antenati avrebbero imparato a raccogliere, a usare e immagazzinare utensili di pietra. Era, come ha osservato Jacob Bronowski, “il primo spettacolare segno di uno di quei grandi accadimenti che sono propri della sola razza umana: la capacità di prevedere costantemente in anticipo l’uso di oggetti.”.
In quel modo i nostri antenati inventavano il futuro, acquisivano la capacità di prevedere le conseguenze delle loro azioni. La creazione di un tempo articolato tra passato, presente e futuro e, contemporaneamente, di uno spazio umanizzato deve avere qualche relazione molto stretta con la comparsa del pensiero simbolico e del linguaggio. “ Un po’ prima che vi giunga [homo sapiens] , scrive Leroi – Gourhan, appaiono presso gli ultimi Paleantropi le prime tracce di simbolismo grafico. Fra la fine del Mousteriano e il Chatelperroniano, dal 50.000 al 30.000 prima della nostra era, compaiono contemporaneamente le prime abitazioni e i primi segni incisi, semplici allineamenti di tratti paralleli.”. Lo studioso francese parla di “Addomesticamento del tempo e dello spazio”. La lunga processione che trasporta nelle vicinanze della casa dell’uomo pietre, animali e piante misura lo spazio e tiene il tempo. E l’uomo comincia a chiedersi da dove e quando partì quella strana processione.
Ascoltare, parlare, pensare
Il termine ‘teatro’ può condurci fuori strada. Indica il luogo dove ‘si vede’. Ma anche dove si sente e si parla e si danza e si suona e si canta. L’attore che impersona Prometeo espone agli attori del coro le ragioni che hanno spinto Zeus a punirlo. Lui ha trasformato gli uomini – come l’attore attraverso il quale sta parlando – da stolti che erano, in esseri in grado di percepire, interpretare e trasformare il mondo: “Dapprima essi vedevano, ed era un vano guardare; ascoltavano, ma senza udire; simili alle forme dei sogni trascorrevano la loro lunga esistenza confusi e senza meta, e non sapevano costruire case di mattoni esposte al sole né conoscevano l’arte di lavorare il legno, ma vivevano sotto terra, come agili formiche abitando il fondo oscuro delle caverne. Non esisteva per loro alcun segno sicuro dell’inverno o della fiorita primavera o dell’estate ricca di frutti, ma ogni cosa facevano senza discernere: finché io mostrai loro il sorgere e il tramontare degli astri, e ne svelai l’arcano linguaggio.”. Ma perché tutte queste attività diventassero patrimonio degli uomini occorreva inventare la capacità di trasformare le cose in numeri e in parole: “E creai per loro la scienza dei numeri, superba invenzione, e l’arte di combinare le lettere, che è memoria del mondo e industriosa madre delle Muse” . L’attore che sta interpretando Prometeo ripercorre per il coro e il pubblico le tappe del lungo cammino che ha portato alla mimesi artistica, quell’attività che lui sta praticando sulla scena e che, pertanto, esplicitamente connessa attraverso le sue parole e le sue azioni ad altre azioni e ad altre parole senza le quali il suo essere in scena non avrebbe senso. E non c’è solamente la memoria del mondo, l’enorme pacco di passato entro il quale sono depositate la domesticazione degli animali e delle piante, le tecniche di navigazione, la separazione del mondo dei sogni da quello della realtà, l’arte di curare le malattie e quella di forgiare i metalli, l’aritmetica e la scrittura, c’è anche il pacco di futuro, come viene sottolineato nella battuta successiva, che, attraverso le tecniche divinatorie, permettono all’uomo di prevedere e progettare il futuro. La mimesi, dunque, è quella capacità che, pur presente negli altri esseri viventi, nell’uomo appare esaltata e più raffinata tanto da permettergli di creare una rappresentazione di secondo grado: quella che l’uomo attore sta realizzando davanti agli occhi dell’uomo spettatore. Possiamo ritornare, a questo punto laddove ha preso avvio il nostro viaggio: La Poetica di Aristotele. Precisamente a Poetica b 48. 4 dove l’equivalenza tra la mimesi e il processo di conoscenza è sottolineata e dove il piacere viene individuato quale principio sotteso all’attività di mimesi. L’importanza di questo passo è rafforzata dal fatto che gli stessi concetti siano presenti in Retorica 1371 b: “E, poiché ciò che è secondo natura è piacevole e poiché le cose omogenee sono tra loro in rapporti naturali, tutte le cose omogenee e simili sono per lo più piacevoli[…] Parimenti, poiché il gioco e ogni ricreazione sono tra le cose piacevoli, e così pure il riso, necessariamente anche le cose risibili sono piacevoli, siano uomini, discorsi o opere. E sulle cose risibili abbiamo trattato separatamente nella Poetica.” .
Rimane infine da chiedersi se e in quali forme la ‘naturalità’ della mimesi, individuata da Aristotele, e da noi proiettata sul piano estremamente complesso e ricco di nodi dell’evoluzione degli esseri viventi, trovi un riferimento all’interno delle strutture cerebrali, cioè in quell’organo non organo – perché per così dire mette in rete tutti gli organi dell’organismo – che sintetizza le potenzialità di comunicazione fra l’uomo e il mondo, e la memoria, e l’azione, e…
L’individuazione nel cervello dei primati superiori (area F5) da parte del gruppo di ricerca guidato da Giacomo Rizzolatti dei cosiddetti mirror neurons, neuroni specchio, che si attivano quando lo scimpanzè compie un’azione (come i neuroni motori), ma anche quando l’animale vede o sente qualcun’altro impegnato nella stessa azione, costituisce senza dubbio un elemento di grande interesse rispetto alle questioni che abbiamo affrontato anche perché l’area F5 dei primati superiori corrisponde all’area di Broca dove sono concentrate funzioni fondamentali del linguaggio umano e del controllo dei movimenti delle mani. “Questi neuroni – ha affermato Rizzolatti – codificano non dei movimenti, ma uno scopo. Scopo è un concetto che in genere lo scienziato, il neurobiologo, preferisce non trovarsi di fronte, preferisce fare i conti con le cause e gli effetti, non con gli scopi. Invece, questi neuroni, che sono posti nelle aree premotorie, codificano il prendere, l’afferrare. Quando si attivano, la loro scarica dice all’individuo: “prendi”. Questo è solo l’inizio. Il passo successivo – forse, quello più sconvolgente – è stato trovare che una parte di questi neuroni si attiva (“spara”), non solo quando l’animale afferra, ma anche quando vede un altro individuo – uomo o scimmia – afferrare […] La nostra interpretazione attuale è che i neuroni “mirror” permettono all’animale di capire cosa fanno gli altri. Cioè, per capire cosa fa un altro individuo non occorre un complicato processo cognitivo, basta una specie di matching tra azione osservata e azione codificata dai neuroni motori. Quando i neuroni mirror si attivano passivamente segnalano all’organismo la stessa azione di quando la compiono. In questo modo l’individuo che osserva si mette nei panni dell’attore dell’azione. Io capisco cosa fa un altro perché questo suscita in me la stessa attività neuronale di quando io faccio quell’azione.”.
Possiamo tradurre le considerazioni di Rizzolatti in una serie d’ipotesi di lavoro:
1. il linguaggio è un modo di agire e la sua comparsa, con molta probabilità è connessa a quella fase dell’evoluzione umana caratterizzata dall’acquisizione della posizione eretta e della contemporanea liberazione degli arti superiori;
2. il fare pensando (o il pensare facendo) è la forma più efficace di conoscenza umana. In questa prospettiva ed in un’accezione puramente strumentale, potremmo distinguere un pensiero che serve per agire (prendere, sollevare, accarezzare, grattare, ecc.) e un pensiero che serve per pensare (immaginare, prevedere, progettare, ricordare, ecc.);
3. l’attività di mimesi teatrale pretende l’attivazione tanto dei neuroni mirror che preparano e innescano l’azione che quelli si attivano passivamente e che permettono di riconoscere un’azione, di estrarne il senso;
4. la costruzione di uno spettacolo, pertanto, non richiede solamente la definizione di uno spazio e di un tempo artificiali, richiede la costruzione di un vero e proprio micro universo entro il quale devono agire persone artificiali, personaggi ;
5. in questo senso non è da escludere che soggetti per i quali si è interrotto (o ha subito significative deformazioni) il processo di contrattazione col mondo reale, possano rimagliare le lacerazioni attraverso l’esperienza della creazione di mondi possibili che caratterizza il fare teatro. E questo spiegherebbe i ‘miracoli’ ai quali abbiamo assistito quando abbiamo coinvolto nella mimesi teatrale ragazzi autistici totalmente refrattari ad ogni trattamento di psicoterapia.
Conclusione. I labirinti delle scritture
Dovremmo ora, per concludere, riflettere sul percorso disegnato dalla scrittura. Una linea? Un albero? No, un labirinto. Affidiamo il congedo ad una storia.
Teseo ha ucciso il Minotauro; il filo di Arianna non gli è servito per raggiungere il figlio di Pasifae, il mostro con la testa di toro; gli serve ora per uscire dal labirinto. Teseo esita. Quanto durerà quest’esitazione? Forse abbandonerà il filo e si aggirerà per sempre nel labirinto. Oppure comincerà a tirare il filo e richiamerà nel labirinto Arianna che i Cretesi chiamavano ari-hagne, la più pura; o Aridela, la molto luminosa. O forse Arianna era già nel labirinto; è da sempre nel labirinto.
Il mondo non è solo davanti a noi: è sopra, sotto, dietro e dentro di noi. Per conoscerlo dobbiamo però portarlo davanti a noi. Meglio, dobbiamo girare in modo da averlo davanti. Aggirarci nel mondo.
Ma come si abita il labirinto?
Il mitografo Apollodoro racconta che Minosse e Pasifae avevano un figlio di nome Glauco (verde marino). Un giorno, mentre giocava con una palla, il bambino era caduto in un recipiente colmo di miele ed era scomparso. Fu consultato un oracolo. “In mezzo a voi – rispose l’oracolo – è nato un essere straordinario; troverà il bambino colui che riuscirà a trovare una similitudine per quell’essere straordinario.”. In effetti, fra le greggi di Minosse era nato un vitello che cambiava colore tre volte al giorno: la mattina era bianco, rosso a metà giornata e nero la notte. Polido (colui che sa molte cose), un indovino di Argo disse che il vitello era come le more che sono prima bianche, poi rosse e, infine, diventano nere. Il vecchio saggio si accorse che un gufo andava a caccia di api vicino all’ingresso di una cantina dove era conservato il vino, entrò nella cantina, trovò il vaso di miele e recuperò il cadavere perfettamente conservato di Glauco. Gli mancava solo il soffio vitale. Minosse chiese al vecchio di Argo di riportare in vita il bambino e, per essere più convincente, fece murare il vivo e il morto in una camera sepolcrale. Il vecchio si accorse che un serpente si stava avvicinando al cadavere e lo uccise. Si avvicinò un altro serpente che, accortosi che il suo compagno era morto, prese lo stelo di una pianta e lo posò sulla testa di quello. Il primo serpente ritornò in vita. Polido capì: afferrò lo stelo e lo passò sul volto del cadavere di Glauco che ritornò a vivere. Minosse fu molto felice, ma pretendeva ancora che l’indovino rivelasse a Glauco i segreti della sua arte, diversamente non gli avrebbe permesso di ritornare ad Argo. Il vecchio saggio obbedì. Ma mentre stava per partire chiese al ragazzo, come segno di riconoscenza di sputargli in bocca. E’ quello che Glauco fece. Ma, attraverso la saliva, la sapienza e i segreti ritornarono a ‘colui che sapeva molte cose’.
Coloro che s’illudono di poter sciogliere l’enigma sono destinati alla cecità. Tutta la vicenda di Edipo è animata dal desiderio di uscire dal labirinto del suo destino. L’enigma della sfinge è uno dei tanti nodi di quel labirinto. Nell’ Edipo Re di Pasolini, quando Edipo cerca di far precipitare il mostro nel baratro, la sfinge gli urla: “E’ inutile, il baratro verso cui mi spingi è dentro di te!”. Già, l’Io in cui si specchia la sfinge; lo specchio in cui precipita la sfinge, in cui sta precipitando Edipo/sfinge/scimmia.
L’oltre della lettura forse si estende intorno alle more di Polido e al vitello di Minosse. E’ il mondo della metamorfosi. La vita è continuo cambiamento; per mantenere un filo di stabilità dobbiamo dissiparla; è la candela che si consuma per mantenere la luce in cima allo stoppino. L’orrore della morte è celato in un vaso di miele.
Minosse, figlio di Zeus ed Europa, diventerà uno dei giudici dell’oltretomba, ma prima deve trescare con la morte dentro la vita e con la vita dentro la morte. Oltre la lettura si aprono i sentieri dell’oltretomba. Il labirinto si estende tra la vita e la morte e in questa zona la scrittura e la lettura segnano ragnatele percorribili. Su queste fragili ragnatele possiamo andare e tornare, scendere e risalire. Sotto quelle ragnatele gorgoglia un baratro senza senso. Minosse era figlio di Europa, sorella di Cadmo inventore della scrittura. Cadmo era nonno di Dioniso, dio della danza sfrenata e del teatro. Venne fatto a pezzi dai Titani. La madre, Semele brucia ancora nel fuoco di Zeus. Anche l’altro nipote di Cadmo, Penteo, era stato fatto a pezzi dalla madre e dalle zie. All’altra zia, Ino, Giunone manda in pezzi il cervello. Atteone, anche lui nipote di Cadmo, finisce sbranato dai suoi cani. Labdaco, figlio di Cadmo, portava nel nome una lettera dell’alfabeto, la lambda, che il padre aveva portato dalla Fenicia. Il figlio, Laio, fu fatto a pezzi dal proprio figlio, Edipo, ad un incrocio. Edipo non seppe leggere i segni del fato e si accecò. E anche i figli di Edipo finirono per sbranarsi sotto le mura di Tebe.
Intorno a questi personaggi, fatti a pezzi e ricomposti, per secoli e generazioni, si attivano canti e danze, scritture e letture, dipinti e spettacoli. Pezzi di ragnatele sospesi sul vuoto di senso; fili predisposti ad una tessitura senza fine, pronti ad offrirsi alle mani degli acrobati della vita.
In queste zone le metamorfosi dei corpi diventano metamorfosi di forme, i contorcimenti della materia producono piegature di segni, i suoni e i colori del mondo migrano da un tempo ad un altro, da uno spazio ad altri spazi.
Come il vitello e le more della vicenda di Glauco e di suo padre Minosse, padrone del Labirinto.