Il mito dell’Odin. Di L.A. Santoro
Il Mito dell’Odin
Di Luigi A. Santoro
La prima seria difficoltà che lo spettatore deve superare per entrare nello spettacolo dell’Odin Teatret, il gruppo fondato e diretto da Eugenio Barba, “Mythos”, è proprio il titolo. Ma, ammesso che riesca a scavalcare o ad aggirare l’ostacolo si ritroverà nuovamente e irrimediabilmente avviluppato nella trappola del sottotitolo: “Rituale per il secolo breve”. E così può solo prendere atto che l’intero orizzonte del ventesimo secolo (il secolo breve) è occupato dai due enormi macigni del mito e del rito. Ma non avevamo chiuso i conti con miti e riti? Chi li ha riaperti e perché? Alla fine dello spettacolo su di un praticabile c’è un organetto che suona l’Internazionale, non ci sono mani che suonano quell’organetto: sono tutte nella ghiaia rossa, a mucchietti, in un’urna raggelata nella luce livida, fredda. Per chi suona l’organetto? E se suonasse per noi?
Gli uomini del XX secolo, il “secolo breve”, come lo ha definito Hobsbawm, si sono avventati sulle frattaglie del mito con una voracità insaziabile e devastante. Sbranavano defecando altri miti. Più deformi e più insulsi di quelli che avevano illuminato oscurando l’aurora della civiltà.
Ma sbaglieremmo se tentassimo di smontare (per ‘leggere’) lo spettacolo dell’Odin armati dell’attrezzatura dello storico Eric Hobsbawm. Il testo dello storico può essere solamente un fondale che non ci sta di fronte, ci circonda invece e ci permette di vedere amplificati e in movimento i fantasmi del nostro tempo.
Ci potrà aiutare almeno la sequenza delle azioni? Proviamo.
La situazione è quasi identica a quella del Vangelo di Oxirinco: su due gradinate, una di fronte all’altra, gli spettatori (un centinaio) si guardano o guardano il gruppo di attori che chiacchierano e ridacchiano alle spalle di un attore con gli occhiali scuri, seduto immobile a capotavola di un enorme tavolo che occupa tutto lo spazio della scena.
Sul tavolo, coperto da una tovaglia bianca ricamata, due candelieri e un vassoio con dei bicchieri e una bottiglia di vino rosso. Il gruppo scomposto degli attori si ricompone come in un dipinto bizantino. Un attore stappa la bottiglia di vino, riempie i bicchieri e li porge a tutti quelli composti in gruppo e a quello con gli occhiali neri, seduto a capotavola. Un bicchiere viene collocato all’altro capo del tavolo: è per qualcuno che non c’è, ma che sta per venire. A questo punto gli spettatori hanno capito l’essenziale: “Lo spettacolo – scrive Barba – è una veglia funebre, alla fine di un millennio e di un secolo breve, iniziato nel 1917 con la rivoluzione sovietica e terminano nel 1989 con il crollo del muro di Berlino. Attorno al cadavere di un rivoluzionario, si radunano i personaggi dei miti greci, si impadroniscono di lui e lo introducono alla loro immortalità.”.
Un’osservazione, apparentemente irrilevante, prima di ritornare al mithos. Barba individua nell’anno 1917, l’anno della rivoluzione sovietica, l’inizio del “secolo breve”, mentre Hobsbawm, l’autore del volume sul secolo breve – ma il titolo originale recita: “Age of Extremis – The Short Twentieth Century 1914 – 1991 – lo fa iniziare col 1914, lo scoppio della prima guerra mondiale. Irrilevante? Nessuno dei personaggi che compaiono sulla scena di Mithos, viene nominato nel pur voluminoso saggio di Hobsbawm, nemmeno quello di Guilhhermino Barbosa che pure, come ci ricorda ancora Barba, “dal 1925 al 1927 marciò per 25000 chilometri in lungo e in largo per l’intero Brasile” come soldato di Luiz Carlos Prestes “in lotta per la dignità del proprio paese, in mano a governanti corrotti”. Prestes, invece viene citato in quanto marito di Olga Benario, figlia di un facoltoso avvocato di Monaco. Avevano capeggiato una “lunga marcia insurrezionale attraverso la giungla brasiliana”, ma l’insurrezione fallì e la Benario venne consegnata dal governo brasiliano ai nazisti e finì in un campo di concentramento.
Perché, allora, questo slittamento di date? Lo storico cerca di dare una chiave di lettura, risposte plausibili alle contraddizioni del XX° secolo: “ Dal favorevole punto di osservazione degli anni ’90 sembra che il Secolo breve sia passato attraverso una breve Età dell’oro, nel suo cammino da un’epoca di crisi a un’altra epoca di crisi, verso un futuro sconosciuto e problematico, ma non necessariamente apocalittico.”. Eugenio Barba, invece, seduto ai margini di quella terra di nessuno che è il teatro impasta domande e le scaglia sugli spettatori frastornati: “E’ anch’essa un mito, la Rivoluzione? Esistono miti che rappresentano la ferocia della Storia, e miti che invece insegnano a non accettarla. Che cosa può essere il mito per noi? Un archetipo? Un valore da dissacrare? Una speranza senza fede?
Dove si nasconde, oggi, un mito? Perché muore? Come lo si seppellisce? Quando rinasce?”.
E’ fra queste domande, già pronte a figliare altre domande, che prende forma, si sforma e si trasforma lo spettacolo dell’Odin.
E dalle fessure delle trasformazioni s’intravede un percorso intricato, fili di storie e suggestioni che i venti della Storia arruffano nei mulinelli della cronaca, o nei cantucci delle terre di confine.
Alla prima prova di Mythos, il 20 gennaio 1997, Barba racconta ai suoi attori la vicenda degli Ona e degli Yamana, le due tribù che abitavano la Terra del Fuoco e di come furono sterminate per far posto ai ganaderos: “Assoldavano cacciatori per uccidere gli Ona, perché la loro esistenza ostacolava l’uso utile della terra. E quando i cacciatori tornavano dalla loro missione, portavano indietro mani mozzate. Per ogni mano che consegnavano ricevevano un compenso.”. E poi la storia di Morel che proteggeva gli elefanti ai quali venivano tagliati i piedi per venderli ai turisti come portacenere o contenitori per ombrelli. E dei cesti di mani mozzate dei negri che aveva visto André Gide. Barba chiude questi racconti di episodi ‘marginali’ così: “Il nostro millennio, che ora sparisce, è un millennio di mani tagliate, di umanità mutilata.”.
Ma poi racconta anche di Barbosa e della “colonna Prestes”, di un soldato analfabeta, che si era addentrato nella foresta boliviana e che negli anni Settanta “viveva ancora lì, insieme a sua moglie e a dodici figli. Non si era mai arreso.”.
Tutto lascerebbe intendere che il lavoro per lo spettacolo dovesse coagularsi intorno alla figura di questo personaggio che viaggiò per 25000 sospinto dal mito della rivoluzione e, invece, il percorso si riapre per accogliere un altro pellegrino “un altro uomo, in un altro millennio, che si mise in cammino per cercare la sua vera identità, e la sua propria origine – Edipo” e si allarga sui ciottoli di una spiaggia ai confini del mondo e della Storia dove s’azzuffano per seppellire un mito del ‘900 i personaggi del mito greco: Medea, Dedalo, Cassandra, Sisifo, Ulisse, Orfeo. Sepolto perché risorga “come una luna che gronda sangue”.
Ma chi deve risorgere, Guilhermino Barbosa?
I personaggi dei miti greci ci rimandano ad un altro spettacolo dell’Odin, Il Vangelo di Oxyrhyncus, dove altrettanto evidente risultava “un intreccio di temi, di figure storiche e mitiche provenienti da epoche diverse e da culture distanti, vi erano personaggi politici contemporanei e personaggi di romanzi”. Era l’inizio del 1984. Eugenio Barba aveva chiesto ai suoi attori di scegliersi un personaggio e di sceneggiarne la storia in modo sintetico. Sette storie legate a sette personaggi per entrare in un unico spettacolo. Lo spettacolo Il Vangelo di Oxyrhyncus come Tebe dalle sette porte. Da una porta entrava Sabbatai Zevi, l’ebreo che si presentò come il Messia e abiurò facendosi musulmano; da un’altra Giovanna D’arco; dalla terza un giovane fuorilegge brasiliano; dalla quarta il Grande Inquisitore di Siviglia; dalla quinta un ebreo chassidim, dalla sesta Beniamin Otalora; dalla settima, Antigone. Lo spettacolo come Tebe, lo sfondo delle tragedie del ‘ciclo tebano’ e Antigone come gli attori del teatro è colei che compie il “gesto inutile”, un gesto di disobbedienza nei confronti di Creonte. “Chi fa teatro – sottolinea Barba – non può che ripetere il gesto inutile di Antigone.”. L’analogia è troppo affascinante per resistere, bisogna lasciarsi andare: “Il pugno di polvere di Antigone, il pugno di spettatori di Grotowski: che azione irrisoria per resistere all’epoca e remare contro corrente […] Questo è il teatro: un rituale vuoto e inefficace che riempiamo con il nostro ‘perché’, con la nostra necessità personale. Che in alcuni paesi del nostro pianeta si celebra nell’indifferenza generale. E in altri può costare la vita a chi lo fa.”.
Potremmo a questo punto fare un salto ancora più indietro, all’inizio quasi della storia dell’Odin Teatret.
Era il 1969. L’Odin incrociava un mito mediterraneo con un mito del mare del Nord, ma non aveva fatto lo stesso percorso Pirandello con La favola del figlio cambiato? E’ necessario insistere ancora? La ‘trilogia del mito’, che chiude l’esperienza del drammaturgo siciliano, non segnala in modo forte il fatto che la via della rinascita del teatro nel ventesimo secolo è obbligata ad attraversare (o riattraversare) le sabbie mobili del mito e del rito? All’inizio del Novecento il corpo ormai esangue del teatro è come percorso da un brivido. Il cadavere, dopo aver devastato la camera ardente del palcoscenico, si sporge sul baratro della vita e tenta il salto mortale. E’ come se all’improvviso si fosse ricordato della condizione paradossale della sua nascita: il gesto inutile, la capriola insensata divaricati tra il testo del corpo e il corpo del testo, tra azione rituale e rappresentazione mitica.
Per un millennio era rimasta l’unica zona dove si potevano rifugiare coloro che avevano scelto di fare da testimoni delle ragioni del bios, del corpo, delle emozioni, del mythos e resistendo ad oltranza all’assedio di un mondo impregnato di (e devastato da) logos, spirito, ragione, techne. Il salto mortale del teatro inizia inarcandosi nella ‘trilogia del mito’ di Pirandello, ma nel corso di tutto il ‘900 si tende e si raggomitola fra le ombre di Stanislavskij e Artaud, Bertold Brecht e Julian Beck, Carmelo Bene ed Eugenio…per sprofondare nel gesto inutile di Antigone.
E, allora, quando i palcoscenici diventano catafalchi, i dei diventano divi, gli attori diventano impiegati, i rivoluzionari diventano funzionari vuol dire che è arrivato il tempo della disobbedienza e di un apprendistato che ci permetta di resistere disobbedendo, di vivere tra i lupi “senza che ti sbranino”.
Ma è anche il tempo in cui il gesto inutile, inefficace, simbolico “che va contro la maggioranza, contro il pragmatismo, contro la moda” diventa necessario. E’ il gesto rituale di Antigone che sgorga dal ventre del mythos e si dissipa nelle orbite vuote di spettatori disorientati, è il gesto che le cesoie della Storia potano insieme alle mani che avevano cercato di accenderlo, è il gesto di “un teatro che cerca il suo valore provando a liberarsi della sua funzione di teatro.”. Il mito dell’Odin, appunto, che sulle note dell’organetto di Barbosa, s’affaccia sul nuovo millennio.